Schegge di Legno

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Alla Tonnara si arrivava attraverso una strada sterrata, piena di ciottoli ed erba selvatica. Fiamma la vedeva da lontano in quel deserto rosso, dove una miniera abbandonata le faceva da guardia. La strada era battuta dal caldo e colorata dall’arancione della Sardegna. I suoi genitori l’avevano acquistata da poco, avevano fatto il salto della quaglia vendendosi tutto e rimanendo praticamente in mutande. Una Tonnara, una casa dei tonni. Fiamma rimurginò sul fatto che quei due pazzi, avessero preso la grande decisione della vita ormai, e il dado era tratto. E se mai un giorno avesse voluto scappare da lì? Ma dico, ma come avrebbe potuto fare? Si arrovellava la mente, Fiamma; e che faceva poi li lasciava lì da soli? Ormai era consapevole, si stavano avviando verso i settanta. Quanti dubbi. Strizzando gli occhi vide un’ enorme question mark che le lievitava davanti, gigantesco, tutto grasso e con una risata pantagruelitica! Ecco il futuro pensò, beh, almeno era lontano e non era vicino! Il nome tonnara, le venne in sogno, non sapeva il perché di questa allusione al mondo ittico suggeritale da Orfeo, non era neppure sicura che in Sardegna alevassero tonni, mah forse lì, su quell’isoletta un po’ italiana e tabarchina credeva proprio di sì!

“Vivrai nella tonnara, nella casa dei tonni”.

Una mattina, Fiamma si svegliò con quelle paroline nella mente e zac! Ecco marchiato a fuoco, il nome della casa nuova! La casa era messa abbastanza bene, se non fosse stato per quello odore di vecchiume anni sessanta e salsedine che non andava più via. Il corpo centrale si sviluppava longitudinalmente e all’interno gli ambienti erano spaziosi e spartani, ricordava uno di quei casali che aveva visto nel sud della Francia, con le ante azzurrine alle finestre, i pavimenti in legno e le tendine fiorite. Sui davanzali piante di peperoncino e aglio a go go, diciamo che la tonnara era una versione più nazional popolare degli esempi d’oltralpe.

Al centro del salone c’era un enorme sedia a dondolo e un grande lampadario in vetro di murano donava all’ambiente colori fiabeschi. Fiamma perdeva le giornate ad osservare i prismi di luce.
Giù in fondo la strada ve ne erano delle altre, perfina una “gattara” una casa dei gatti. Fiamma rideva ogni qualvolta passava lì davanti. I proprietari, due hippie in pensione anche loro, avevano scovato in giro per il mondo tutte le mattonelle, le maioliche e le piastrelle possibili raffiguranti gatti! Avevano uno o due problemini evidentemente! E poi una casa dei gatti vicino una casa dei tonni la preoccupava non poco! La mia era la la casa più importante, quella più grande. La casa infatti aveva delle potenzialità immense e Fiamma già si vedeva imprenditrice di tonni e scatolami sotto sale. Il problema semmai era come eliminare la puzza di pesce, e poi sarebbe dovuta andare in giro con una cerata gialla e con un cappello da nostromo? Naaa!
La mia stanza aveva il parquet, rovinato dall’aria di mare e un piccolo stanzino che dava su una profumatissima pineta, un lettone in ferro battuto e tante lampade.

Perché? Avete presente quando il terreno vi frana sotto i piedi? Fiamma si sentiva esclusa, messa al muro.
“O ti sta bene questa situazione, oppure puoi fare le valigie e andartene”
“Mamma, ma dico, ma ti rendi conto? Ti sembra normale che debba vivere qui, solo perché voi avete speso tutto per vivere il resto dei vostri giorni col le pezze al culo?”
“La porta sta lì”
“Fiamma, stai calma vedrai che farai amicizia con qualcuno e ti sentirai subito meglio!”
“Ma non sono un’adolescente, cazzo ho quasi trenta anni, non ho un lavoro decente, mi date 20 euro al giorno se tutto va bene, e diciamolo, perché, perché vi faccio pena più che altro e perché dovete addolcire i vostri sensi di colpa nei miei confronti”
“Stai tranquilla, piccolina vedrai ti troverai bene qui!” Il padre era plastico nelle sue affermazioni, con una flemma invidiabile smorzava tutto il suo nervosismo all’istante, per farle risalire la bile in un nanosecondo appena si trovasse da sola.

La madre di Luca abitava più giù e in settimana era andata a farle visita. Era una donna sulla cinquantina, in carne, appesantita da depressioni e delirium tremens, no questo no, scherzo! Ma esauriva il figlio alimentando le sue manie e trasferendole sistematicamente a lui. Luca era rimasto sulla terraferma per lavorare, veniva sempre nel week-end. Contavo i giorni. Quanto doveva ancora lavorare su di lui per tranquillizzarlo, coccolarlo, distrarlo dalle sue fobie maniaco-depressive! La colpa era della mamma, Luca era il suo giocattolino, la sua valvola di sfogo. Un po’ era anche comprensibile era rimasta sola troppo presto, troppe responsabilità con i figli piccoli, le paure che si affacciavano di volta in volta all’uscio della porta. Alcune erano riuscite a varcare la soglia, altre aspettavano il loro turno, ma erano sempre lì.

“Mi sei mancato, credevo di non sopravvivere a questa settimana”.
Luca era ancora dentro di me.
“Non voglio stare da sola, lo sai faccio cose strane se mi lasci da sola, ho bisogno di te, lo sai, lo sai cosa succede se mi trascuri!”
“Hai fatto la stronzetta con qualcuno, Fiamma?”
“Ma dai…! Mmm aspetta a ripensarci bene…col pescivendolo che portava il tonno a mia madre, così giusto per restare in tema!”
Luca, scoppiò a ridere e scese giù, con una mano ferma sul seno e l’altra che si faceva spazio tra le gambe, fino a immergere la testa lì, per asciugare tutto il mio piacere.
Si svegliòcon la voglia di dipingere, dipinsi Luca a pancia sotto, nudo, con i suoi glutei di ferro, le sue spalle larghe, riuscì a disegnare anche il profumo di lei che aveva addosso e il suo lascivo piacere lasciatogli sulla bocca, pigro nella sua posa, appagato, in pace con se stesso. Ma a lei non bastava averlo solo il sabato e la domenica, a lei non bastava averlo 12 h il sabato e 12 h la domenica, perché ovviamente il principino doveva essere coccolato anche dalla mamma borderline-frustrata-cronica della vita!
“Ti sarò schifosamente infedele, ma questo lo sai già vero?”
Luca, le stampò un bacio sulla fronte ed entrò in macchina, lo vide allontanarsi all’orizzonte. Aveva ancora una voglia matta di lui.

E poi dicono che la solitudine concili l’estro e la creatività! Nulla di più sbagliato. Dalla sua stanza, che sembrava una bettola da pirati, per via dello scricchiolare del parquet e del tanfo da stiva, Fiamma voleva urlare, e da lontano i gabbiani le ricordavano quanto proprio non potesse soffrire la Tonnara, come una Raperonzolo “molto rivisitata”, messa in trappola, da quegli hippies dei suoi stivali dei genitori!

Si era svegliata storta, non aveva trovato nulla per colazione e, ancora in pigiama, aveva preso la bici e si era catapultata in strada, era andata in paese, ma Fiamma preferiva utilizzare il termine “spaccio” per quel negozietto biò. Come al solito non aveva trovato né il miele di castagno, né le fette biscottate al farro, e fu “costretta”a ripiegare su un megacornetto con crema chantilly e super cappuccino corretto al cacao. Prese tutto in quell’odiosissimo bar anni settanta, con le sedie di plastica arancioni, i posacenere Cinzano e l’insegna Fernet-Branca! Sul retro aveva pure il tavolo da biliardo!

Beh direte voi, vivi su una scogliera, respiri aria pulita, ti svegli con il dolce canto delle sirene, mangi (beh, forse, ti piacerebbe) organic… di cosa ti lamenti!?
Fiamma non amava gli estremismi, aveva deciso di posizionarsi in quel “mezzo” raggiungibilissimo che rende la vita facile e aveva accettato di buon grado, di negarsi e donarsi al compromesso a seconda dei contesti del momento.

Lo aveva fatto con gli uomini, con i suoi genitori, col suo lavoro, aveva avuto le sue esperienze sia da modaiola incallita, che da artista bistrattata, sia da punkettara/dark/metal stile Sepoltura, sia da party girl da boy band. Fiamma aveva deciso che le piacevano troppo i bei vestiti, i profumi, i gioielli, il mettersi il pigiama “come le galline” o uscire a mezzanotte, farsi una cannetta o dare forfait a una pizza per applicarsi una maschera alla propoli in viso. Senza stress, assecondando i suoi umori e le sue necessità.

Preferiva non essere “etichettata”, non appartenere a nessuna “casta”. Provava una pace interiore piacevolissima, vivere la sua esistenza senza troppi scossoni, tranquilla ed eccitante, sfrenata e asettica al tempo stesso, rispettando i suoi momenti off e gioendo di quelli on. La vita come un cocktail, creato seduta stante e su misura per lei, correggendolo quanto basta o annacquandolo quando voleva.

Fiamma non avrebbe mai potuto vivere da funambola come i suoi genitori, perché era una radical chic dichiarata! Il lavoro precario e qualche soldino in tasca le davano felicità, dopotutto, era più facile “fare la rivoluzione” con qualche spicciolo in più! E lei odiava i “rivoluzionari” part time, quelli che andavano in giro con le pezze al culo, e alle spalle avevano genitori professionisti con case e barche di proprietà.

Rispettava i giorni in cui si sentiva brutta, altrettanto a quelli dove, invece appariva bella, dicendo a se stessa che, dopotutto, non si poteva dare il massimo sempre, non poteva caricarsi al 100% ogni santo giorno. Doveva rispettare quei momenti dove i capelli non erano in ordine, la ceretta era una Fata Morgana e l’umore nero come la pece la avvolgeva tipo blob. Cazzo, li doveva accettare quei momenti, tanto sapeva che prima o poi, a fasi alterne, venivano a bussare alla sua porta! E, ai quali, ahimé, doveva dar conto. Aveva accettato di non sposarsi, forse aveva valutato la convivenza, ma comunque era impossibile per lei vivere con un solo uomo, pensare al matrimonio, magari solo perché, prima o poi il grande passo lo facevano tutte, mettersi il vestito bianco, le bomboniere, il ricevimento e poi, dopo, stare col fegato spappolato, combattere perché i soldi magari sono pochi, tirare la cinghia, Fiamma non aveva attorno a sé gente sposata e felice, ma frustrati, ma non le piaceva neanche essere troppo disfattista in merito, solo che il matrimonio non era una cosa che le andava a genio. I figli sì, però, e lei ne voleva tanti!

Si collocò in quella terra di mezzo verso i quindici anni, quando vide vomitare anche l’anima di Sara, una sua amica del liceo, che in preda ad una pasticca andata a male, asseriva di vedere rotoli di sangue che la inseguivano per tutta la stanza. La ricorda bene quella stanza, piena zeppa di poster di Jim Morrison, di spilloni, borchie e lurida all’inverosimile.

No, grazie. Fiamma ci teneva troppo alla sua pelle ambrata, ai suoi capelli neri, ai suoi occhi da gatta, che aveva deciso di declinare di buon grado tutti gli inviti ad alcol e droghe.
Fiamma non era una moralista, le piaceva la cultura beatnik, le avanguardie, i collettivi, gli happening, il punk, la new wave e i Cure, ma le piaceva guardare da lontano, non sporcarsi le mani in quel calderone, le manacce le avevano già messe i suoi, rovinandole la vita! Fiamma assecondava i suoi equilibri a seconda del suo stato d’animo. Quando voleva fare l’amore, bene! telefonava Luca, e lui correva in un batter baleno! Sì sentiva sola perché Luca non poteva soccorrerla? Bene! chiamava Robi. Ovvio, qualche volta le andava in bianco, magari qualcuno inciampava e non poteva più correre da lei, ma non disperava. I “no” erano parte integrante della sua éducation sentimentale e gli inviti declinati non andavano minimamente a scalfire il suo ego smisurato!

Fiamma viveva il tutto con equilibrio e serenità senza mettere limiti: paletti da morale cattolica, ostacoli da sensi di colpa, limiti da morte. La morte, forse, era il più grande dei limiti umani e Fiamma non era ancora riuscita ad ingannarla, ma la partita a scacchi con Miss M, era rinviata di parecchi anni, o per lo meno incrociava le dita in tal senso!

Luca non sapeva di Robi, era troppo sensibile per rivelargli di una storia parallela e Robi accettava pur di stare con Fiamma. La giusta misura delle sensazioni, senza colpe e senza giudizi. Tarate, misurate al caso, al giorno, al tempo e alle proprie inclinazioni. Cosa c’è di male? Bisogna nascere per forza tondi e morire tondi? Ma sapete in quante formelle la vita ci inserisce? Come nei più riusciti dei giochini Fisher Price, ecco, Fiamma si ricorda di come non volesse mai introdurre il quadrato nel quadrato, per esempio!
Yannick, sarebbe venuto alla Tonnara sabato. “Che tempismo” pensò Fiamma, Mr and Mrs “scappo dalla città, la vita, l’amore e i tonni” non ci sarebbero stati, anche se, la loro presenza non avrebbe destato nessun problema, dopotutto uno dei pochi vantaggi della casa è che era abbastanza grande da non incontrarsi durante il giorno. Yannick metà inglese e metà greco, l’aveva conosciuto ai tempi del suo Erasmus a Basildon. Basildon, una cittadina grigia e amorfa, eccitante solo perché era stata la culla natale dei Depeche Mode, e ovviamente per Yannick, con il quale aveva trascorso non poche giornate e… nottate a parlare di Ouzo e ad ascoltare P.J.Harvey, completamente strafatti.

Bisogna mostrare solidarietà e comprensione, ma anche compassione per quelle donne che fanno le vittime, che sono vittime. Vittime della loro monotonia, del loro sesso monocorde, monotematico e monocolore. Fiamma per loro provava solo rabbia. Rabbia, perché quelle donne avevano paura, rabbia perché quelle donne parlavano male delle donne come lei, libere, vere e pure. Fiamma non aveva paura ad accogliere il piacere, di questo ne era più che sicura! Ma detestava quelle insopportabili frustrate che criticavano senza averlo mai provato, gliene avrebbe voluto dire “quattro” in proposito. Si può vivere di passione? Si può pensare al sesso ore, minuti e quarti d’ora? Fiamma si interrogava quotidianamente su queste domande, e più cercava, più non trovava risposte. Era perfino riuscita a fare una classifica di chi le avesse fatto provare l’orgasmo più forte finora. Perché l’orgasmo è così volatile e suscettibile di cambiamenti? Quante domande, e un numero esiguo di uomini, tre finora che l’avevano venerata e coccolata, e ai quali Fiamma si era concessa adorandoli e ricambiando tutto l’amore donatole. Fiamma era dipendente delle leccate di Luca, del cazzo di Robi e delle attenzioni maniacali di Yannick. Ma era troppo piccola per capire, troppo distratta, troppo nascosta dietro il paravento. Anche il suo orgasmo era infantile, veloce, accelerato, cercato subito, preteso subito. Aveva ancora molto da imparare.

La verità è che quando perdi la testa per un uomo, per la donna è finita. La sua anima è arrivata al capolinea, il suo corpo appartiene solo a quel lui, il suo corpo funziona solo con quel lui. Non raggiungere mai questa dipendenza rappresentava per Fiamma la più grande sfida! Quando una donna perde tutto? Quando dà tutta se stessa, quando con un uomo raggiunge quello stato mentale e corporeo di fusione, estasi, passione. La donna perde la testa quando trova un uomo che la fa godere; quando mette da parte quelle sciocche competizioni, quelle gare di prevaricazione, quella apparenza insopportabile, quel séparè tra lei e il piacere. Ecco che allora è vulnerabile, esposta come non mai, alla mercé del maschio.

Fiamma aveva provato tutto questo e si era detta più volte che non avrebbe più sofferto, che non avrebbe più provato nessun dolore e allora aveva ceduto a se stessa, al suo bisogno di piacere, di godere, di amarsi. Succedeva tutte le volte, con Robi, con Luca, ed era successo perfino con Yannick. Solo sesso, nessuna vita a due, eccetto che per brevi periodi. Ma Fiamma nel suo cuore provava amore per tutti e tre in egual modo, e avrebbe provato affetto anche per un “quarto” se, se ne fosse mai aggiunto! Il sesso come terapia alla solitudine, il sesso per riempire un vuoto, il sesso per sentirsi viva. Per Fiamma il sesso era amore e l’amore era sesso. Tra pensieri ansiogeni e pulp era bello concedersi tutto questo, e dare liberamente la mano al desiderio che, come una guida, ti accompagna dove vuoi andare! Ma allora cosa vuol dire innamorarsi? Forse l’amore consisteva nel dedicare tempo e dedizione, ma questo Fiamma già lo faceva. Troppe domande. Continuava a non capire una mazza…ops un’acca!

Quella mattina Yannick, era venuto a prenderla fin sotto casa. Era bello rivederlo dopo una settimana. Fiamma si era messa a puntino per lui: ceretta brasiliana, capelli freschi di henné, vestitino griffato Vivienne Westwood comprato di terza mano a Camden e tacchi altissimi. Yannick l’aspettava in macchina, scese per aprirle la porta, le disse all’orecchio quanto fosse meravigliosa e partirono alla volta di casa sua, dove Fiamma trascorse tutti i sabati e tutte le domeniche di quel 2002. Appena entrati Yannick, le tolse il cappotto, un pellicciotto sintetico che faceva molto King’s Cross, e le preparò l’immancabile cup o tea.
Fiamma lo osservava in silenzio, compiaciuta e impaziente, si sistemò il reggiseno con una mano, Yannick se ne accorse e rise con la coda dell’occhio.

Fiamma lo prese alla lettera, stava seduta al tavolo in quel giardino d’inverno, pieno di stampe Old England appese alle pareti con un’aria frivola e sfacciata, mentre aspettava il suo tè. Quello era il loro personalissimo rituale, il loro modo di corteggiarsi, di “ritardarsi”. Aveva le gambe accavallate, i suoi collant trasparenti erano evidenziati solo dalla punta rinforzata dei piedi e dei talloni; si sbottonò il reggiseno, il suo reggiseno ricamato di un bianco perlato, che le strizzava il seno, lasciandogli il segno, reso ancor più florido per gli sbalzi ormonali del ciclo. Le lasciò così, senza reggiseno, prestando molta attenzione che Yannick la stesse guardando, poi si alzò la gonna e si tolse le mutandine anche loro perlate e immacolate. Rimase seduta, con quegli occhioni da gatta che reclamavano la sua lingua, rimase seduta nella penombra di quel primo pomeriggio. Yannick le si avvicinò in ginocchio, fiamma stava col sedere sul pizzo della sedia le gambe aperte, lui le alzò la gonna, l’acqua nel bollitore che fischiava, inizio a morderle l’interno coscia, non c’era tempo il tè era quasi pronto, lo teneva lì con la testa, era bello toccargli i capelli, che erano un po’ lunghi, di un castano ramato e toccargli i piercing sulle orecchie. La barba di tre giorni amplificava ancora di più le sue leccate, che si facevano ora più prepotenti e volutamente veloci. Yannick la conosceva bene, Fiamma la conosceva bene e sapeva che le bastavano solo un paio di minuti per cedere ed urlare il suo nome.

viviennelanuit©

Rid of me, P.J.Harvey, Island Records 1993

Più niente assomigliava a niente

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“Siamo adulti”, quanto volte ho sentito questa frase, come se l’essere adulti implicasse la salvezza dell’umanità, la giustificazione di adottare certi comportamenti, la convinzione di fare la scelta giusta e quell’insopportabile sensazione di “pararsi il culo”. “Siamo adulti”, quindi cerchiamo di non essere ridicoli, riusciamo a gestire relazioni di sesso senza caderci, non siamo più rock’n’roll, (semmai, lo siamo part time, con l’ansia del lunedì che ci alita sul collo), non diciamo parolacce, siamo standardizzati, non facciamo gli ingenui, moderiamo i toni, abbiamo un a plomb da dermatite atopica, e camminiamo su un pavimento pieno di uova, con qualcuno dietro che ci spinge avanti con un forchettone. Quando finisce la giovinezza e inizia l’età adulta? Perché, a volte, voglio fare ancora l’adolescente? Perché non riesco ancora a vedermi adulta, perché non riesco ad immaginarmi mamma e moglie? Perché?
La mostra era stato solo un pretesto, un sottile pretesto, una scusa, una piccola zona franca per salutarci, un modo per sussurrarci a bassa voce: siamo salvi! Siamo amici, è solo un pomeriggio con un amico.
–Dio, perché mi hai fatto vedere la luce? Non potevo vivere all’ombra dei miei orgasmi solitari? – Non potevo fare come quella mia amica che dopo l’amplesso si chiudeva nel cesso per sgrillettarsi totally alone? Secondo me, sono po’ troietta perché ho calpestato il terreno del paradiso e sono tornata indietro, perché ho visto Sodoma e Gomorra bruciare e voltandomi non mi sono polverizzata, perché ho aperto il vaso di Pandora senza esserne travolta, anzi, mi ci sono chiusa apposta in quel vaso maledetto, e anche a doppia mandata. In centro facevano 36°, o almeno così avevo letto sul display della farmacia, ero uscita di casa a volo, gonna di lino lunga verde militare, magliettina beige, bracciali tipo gipsy, capelli sciolti, sandali che esaltavano il pedicure appena fatto, pelle profumata di olio di Argan. – Fiamma, non sei l’unica fighetta in giro che vuole fare la minimal chic, quindi evita di descrivere come eri abbigliata, la rivoluzione adesso è essere normali senza dare nell’occhio, come quando una tavolata di venti persone si alza senza pagare e si disperde in gruppi di due senza dare nell’occhio, capito cosa intendo?-
–Sì, si chiama svignarsela e non pagare il conto!-
-Normalità, comportati come “se il fatto non fosse il tuo”, scattati una foto alle cascate del Niagara, o mentre stai precipitando, che ne so,  dal Monte Rosa, e pensa: ops, ma tu guarda che ci faccio qui? L’ovvietà che si fa tendenza, l’ordinario che diventa straordinario, calma e rilassata, non è figo mostrarsi in ansia e in balia delle emozioni, ricorda: “il fatto non il tuo.”-
-Esserino, ma che cazzo hai voluto dire? Ti sei fatto un cannone di due metri?-
-Sapevo che avresti indossato quei bracciali.
-Ti ricordi a Ponza? Al Frontone? Quando ero innamorata di te?
-Ed anche questa frase:”ti ricordi al Frontone?” Ma dai! Te lo volevi scopare, perché non ce la facevi più, perché stavi in crisi d’astinenza, non impacchettare tutto con nastrini, perline e gingilli!-
Camminavamo lungo i corridoi del museo in silenzio, scambiandoci qualche occhiatina di tanto in tanto, mettendo a fuoco qualche etichetta messa sotto un fumetto, così per ingannare noi stessi, per distrarci, da quel vortice di passione che di lì a poco ci avrebbe inondato, per illuderci che eravamo salvi, perché stavamo ad una mostra, vedevamo quadri, leggevamo, ci informavamo; date, tecniche utilizzate, non stavamo scopando come dannati in qualche angolino nascosto. Eravamo normali!
-Potevi scegliere un’altra mostra, però?
-Non ti piace Milo Manara?
-Il problema è che ce l’ho duro adesso, perché mi fai impazzire.
-Non sono io, è Miele a cosce aperte che ti fa impazzire
-Beh anche, allora, vi immagino tutte e due mentre state avvinghiate, sudate, e accaldate, meglio così?
Tutte le tavole dell’Uomo Invisibile mi sussurravano: -Tieni Fiamma, usa anche tu la pomata dell’invisibilità, così potrai scoparti Luca senza sentirti una pezza dopo. L’ombra del sesso cade su di noi come una sciagura, perché? Il sesso è il punto di partenza, è la ruota che traina il carrozzone, è quel microchip dal quale è nato il computer, cavolo! è quella sensazione di appagamento, che ne so, dopo che hai pulito da cima a fondo tutta la casa e sprofondi sul divano, soddisfatta, piena, e consapevole di dedicare del tempo a te stessa, di coccolarti. Il sesso, io lo vivo come una valvola di sfogo, senza contaminazioni sociali, del tipo troietta-mangiauomini-panterona-porcella, il sesso dovrebbe essere patrimonio dell’UNESCO, roccaforte delle frustrazioni, “gettoniera”delle giornate di merda, ma una gettoniera pulita, cristallina, non relegata a cose squallide, peccaminose, nascoste e infime. Mi viene voglia di proporre una petizione change.org, per epurarlo dal grigiume, ed elevarlo a pratica nobile e pura, mi piace l’dea di fare sesso come se non ci fosse un domani, come se l’oggi fosse soppiantato all’eterno, come se quell’attimo di trasporto, di formicolio, di adrenalina, di saliva che scende dalla bocca fosse in continuo rewind! In perpetuo rewind.
Luca faceva parte della mia vita, ne era entrato prepotentemente, a voce grossa, senza chiedere il permesso di stravolgermela, di attorcigliarmela, di incasinarmela. Ogni volta che lui mi cercava, io mi facevo sempre trovare, ero sempre lì, dietro l’uscio della porta di casa sua, sempre lì a rispondere a un suo messaggio, con il cuore che batteva fortissimo, perché mi aveva scritto.
Come la mettiamo con i sentimenti? Ma il sesso è sentimento, e condivisione mentale, è trasporto in movimento e parcheggio di macchine che stanno per scagliarsi a tutta velocità, è distruzione e rigenerazione. Sì lo so, quando “funziona” è la catarsi, e lì so’ cazzi, ma di quelli amari! Luca era un concentrato di ingredienti, era la formula perfetta di quello che volevo, di quello che cercavo. Senza se, senza ma, senza è giusto, senza sbagliato, senza sempre, ma solo oggi, perché ero sicura che quell’oggi con lui sarebbe stato comunque il mio sempre. Lui è stato in grado di cancellare tutte le mie insicurezze di ragazzina che si vedeva bruttina, invisibile, che si rintanava nell’Indie, perché odiava il resto del mondo; Fiamma vs il resto del mondo, Fiamma che sembrava una macchina a cui arrivava la benzina all’improvviso e aveva lo sprint, per poi perdere i giri….capite cosa intendo? Luca è stato l’uomo che mi ha “messo a punto!”
Quante volte mi sono seduta sul divano blu, guardando il telefono, facendo il pari e dispari se chiamarlo o meno, quante volte ho percorso il corridoio del dubbio e dell’indecisione se scopare o meno con lui. Sì, è stata la scelta giusta, e quei momenti di vita, di passione, di oblio, di catarsi, di passione, di sesso puro e semplice, io lì terrò sempre chiusi dentro di me, come in una scatola magica che andrò ad aprire nei momenti difficili, quando la nostalgia incombe, e all’orizzonte vedo solo un balcone dal quale voglio buttarmici, altro che Giulietta, voglio fare una fine, di gran lunga, più pulp di Giulietta!
-Grazie per gli auguri di compleanno-
Erano due mesi che non si faceva sentire, mi telefonò, ed io non risposi, lo vidi anche sotto casa mia, ed io feci il giro lungo per non beccarlo. Stavo cercando di disintossicarmi, ebbene sì, non avevamo più vent’anni, e la nostra relazione “solo sesso”, stava finendo per uccidermi, tanto non andavamo d’accordo, ci avevamo provato a stare insieme, ad avere una relazione normale, standard, mano nella mano, occhi a fiorellini, e baci perugina, ma entrambi eravamo consapevoli di non riuscire a portarla avanti, perché il sesso occupava tutto lo spazio, occupava tutto il tempo, tutta la normalità, e non collimava con la vita standard. Come quando bevi, e all’inizio senti quel calduccio correrti dietro la schiena, quel tepore che si fa gradualmente sempre più violento, fino a farti vomitare. La nostra relazione aveva tutti i contorni di una storia di droga, eravamo come due tossicodipendenti che toccavano il cielo con un dito, e che venivano scaraventati nella più fredda delle cantine, che si crogiolavano su un divano damascato, con una lunga pipetta d’oppio, e che si alimentavano di nuovi propositi, di “up” perpetui, e di “ fasi-rota”. Per poi ricominciare a loop, a refrain, a iosa, a cerchio e tutto daccapo.
Ricordo ancora quell’incontro, dopo appena una settimana “di rota”,e dopo un tripudio di messaggini roventi, di conversazioni piccanti e di orgasmi solitari. Casa sua, arrampicata a Materdei, mi sembrava ancora più grande, con quell’immensa scalinata seicentesca, tra archi e volte a botte. La bella’mbriana mi guardava compiaciuta da dietro una colonna, con i capelli biondi, lunghi e setosi, come la matrona di un bordello d’antan, come una fata incantata, quasi come se mi volesse dire: “sì turnata, t’aspettav”. Io con un espressione di rassegnazione e al contempo di impellente bisogno di soddisfazione, le rispondevo: “c’aggia fà!” Le mattonelle delle scale erano scomposte, ogni passo un rumore, ogni passo che facevo avevo la sensazione di cadere. L’appartamento era all’ultimo piano, la prima volta con lui non riuscì a varcarne la soglia, tale era il bisogno di amarci, di divorarci. Dovevamo andare al concerto dei Subsonica, avevamo fatto tardi, Luca aprì la porta, mi corse incontro, mi aprì le gambe con forza, mi fece poggiare un piede sulla ringhiera, che in quel punto era bassa, e solida, mi alzò la gonna, mi scostò le mutandine ricamate verde petrolio, che avevo messo su per il dopo concerto, (anzi, facciamo per la mattina dopo), alla sua prima leccata, ebbi un cedimento, cercavo di fermarlo, avevo paura ci vedessero, ma chi voleva che passasse in quel palazzo decaduto, pieno di pensionati delle poste e della Banca d’Italia.
-Siediti sulla mia faccia-
Diventai leggerissima per lui, mi prese per il sedere mentre leccava senza fermarsi, deciso e con veemenza come piace a me, stavo per irrigidirmi, puntando un piede a terra e l’altro sulla ringhiera.
Mi afferrai alla ringhiera, perché rischiavo di capitolare nella tromba delle scale, di colare a picco come il Titanic, di demolirmi come un grattacielo minato di bombe.
La mia mano afferrava i suoi capelli, l’altra l’avevo poggiata sulla mia bocca, volevo urlare, cazzo, volevo urlare, adesso mi muovevo da sola sulla sua lingua, sulle sue dita, con le mie unghie che affondavano nelle sue spalle, in quella impalcatura del piacere. Stavo per venire, solo con le dita, istintivamente mi stavo allontanando, lui mi prese per i fianchi e mi risistemò sulla bocca, sulle sue labbra, sui suoi denti, sulle sue dita. Stavo ancora tremando, l’elettricità correva ancora sull’epidermide, Luca mi baciò, che avevo ancora gli spasmi in corpo, mi si annebbia sempre la vista dopo l’orgasmo, perché? Per un paio di secondi vedo tutto offuscato. Gli sbottonai i jeans, avidamente, ma con una calma apparente, mi piaceva, lo volevo, volevo farlo venire più di ogni altra cosa al mondo, dell’universo, dell’intera galassia interstellare, ora era lui che si appoggiò alla ringhiera, che si manteneva a quell’àncora di piacere, a quella boa in mezzo all’oceano, la mia mano lo circondò, lo afferrò, cominciò a ruotare, andando su e giù, senza perdere di vista la sua espressione, era un po’ umido, avvicinai le labbra, cominciai a succhiare, eccitandomi ancora, bagnandomi ancora, lo chiusi, afferrando con una mano la ringhiera, nel modo più profondo che potevo senza fermarmi, con dolcezza, con calma, Luca iniziò a respirare profondamente, abbandonandosi a me, alla mia bocca, lo amavo, questo era amore, era passione, era ardore, era vita. Mi asciugò con un bacio lunghissimo.
Adesso in quel pomeriggio caldo, di sudore, di echi passati, di ricordi e di amplessi furtivi nell’androne del palazzo a Materdei, Fiamma vedeva Luca, ma non era più lui, era riflesso in uno specchio, l’immagine sinistra del ragazzo che era stato, la foto di quelle sensazioni, il sogno meraviglioso che al risveglio cerchi di ricomporre e che ti procura fastidio, perché non riesci a ricostruirlo, no, non era più lui, erano passati gli anni, e la carica si era esaurita, in mille e più scopate senza un domani, game over!
Lì, davanti quella pizza, ridemmo di noi e di quello che c’era stato, come due vecchi amici, come due conoscenti, come due persone, come due amanti, come un uomo e una donna che avevano condiviso l’amore allo stato puro, cristallino e immacolato.
-Sabato prossimo mi sposo-
Fiamma tagliò quella pizza margherita, come se non avesse sentito nulla, o come se avesse ingoiato d’improvviso una bolla d’aria.
-Chi è lei? –
– Sta vicino a me, mi sono affezionato, ormai ci sto dentro, che devo fare?-
-Che devi fare? Non hai mai fatto niente, continua a soccombere a tutto, continua a nascondere la testa sotto la sabbia, ingoia il rospo e tira avanti, sposati la tipina giusta, perché ti sta vicino e ti accudisce e chiudiamola qui, ok?-
-Com’è la pizza?-
-L’impasto lo sento gommoso, mi si sta bloccando tutto in gola-
-Bevi un po’-
-Io non la finisco qui, Fiamma-
Fiamma si alzò, e andò a pagare il conto con quel domani, che adesso le si era materializzato davanti, le tendeva la mano e l’aiutò ad aprire la macchina e ad ingranare la prima marcia, la prima di una lunga serie.

Vivienne La Nuit ©

Les Amants Régulier, Philippe Garrell, Francia, 2005

La chanson des vieux amants, Jacques Brel

 

MIDNIGHT IN SAMOTHRAKI

Video

Noleggiammo un pulmino piccolo e partimmo. Luca passò puntuale sotto casa, scese e mi raggiunse al portone aiutandomi con lo zaino. Portai con me poche cose: qualche jeans, due magliettine, un paio di sandali con un tacco vertiginoso e due gonne, era chiaro che il “poche cose” fosse ironico, lo spazio se lo mangiava tutto il beauty case, tra creme solari, spazzole e asciugacapelli, e soprattutto l’intimo, come qualche completino sexy afferrato in fretta e furia, che mi ricordava che ero una donna! In quel pulmino non si respirava, faceva un caldo asfissiante. Vidi da lontano Robi, vestito come un samurai dello shogunato Kamakurai: capelli legati a chignon, sandali alla schiava, camicia lunga a scollo marocchino, con un numero imprecisabile di collanine di perline, aggrovigliate al collo.
– Ma tu guarda come si è conciato! –
– Per me è un dio greco! –
– Io fino a Samothraki non lo porto! Ti avverto! –
– Carina la minigonna! Ti si vede il culo lo sai? Nell’attesa di quello, afferro un po’di carne, però!-
Robi, mi salutò con il suo personalissimo “saperci fare marpione!”, agguantando in una morsa il mio interno coscia sinistro.
La nave sarebbe salpata alle venti da Brindisi, dovevamo farci un attimo mezza Italia, e stavamo già in ritardo mostruoso sulla tabella di marcia. Per forza! Dovevamo raccogliere in giro per Roma “a mo’ di sacchi di patate” tutti gli altri partecipanti al “voyage”, non come la sottoscritta, che con uno zaino di trenta chili, si era presa l’Inter City da Napoli! Ed era partita il giorno prima per casa di nonna! Carola, entrò borbottando e inveendo contro il caldo, cominciò a parlare di quel maledetto esame di filosofia teoretica, e non la smise almeno fino a Canosa, Valentina aveva le mestruazioni e doveva fermarsi ogni mezz’ora in autogrill, per fare scorta di caramelle alla menta e Gatorade, mentre Paolo, collassò sul sediolino reduce da una 72h di Rolemaster no stop! Io e Robi, avevamo la fase rosa, avevamo ripreso a frequentarci, lui era in modalità super-romanticone-che-vuole-scopare, mentre io ero nel periodo dolcezza-e-bisogno-di-stabilità-affettiva-cercasi! La destinazione era il festival Trance Music più importante d’Europa, ai piedi del Santuario dei grandi dèi di Samotracia, proprio sotto il monte Fengari. Io non ero-tanto-per-la-quale, e dal momento che non facevo parte delle schiera delle divinità Ctonie, non mi andava di ballare per 48h di fila, sicuramente avrei preferito una vacanza più tranquilla, magari alle terme, bevendo succhi di frutta! Avrei voluto svegliarmi all’alba in una stanza che seguiva i principi del Feng Shui, e non in una tenda a 40°, avrei voluto essere avvolta da accappatoi bianchi e profumati al sapone di Marsiglia, fare colazione con brioche alla marmellata di mirtilli, essere illuminata da candele alla vaniglia, e morire su di un lettino facendomi massaggiare con olio di mandorle.
L’idea di sballarmi non era nei miei piani, e neanche in quelli di Robi, ma Luca e Carola erano agguerritissimi! Come in un libro, di cui già sapevamo il finale, Paolo si sarebbe rinchiuso in un internet point a giocare a EveOnline, Valentina avrebbe copulato tutto il tempo con l’olandese conosciuto l’estate scorsa a Rotterdam, e i “due dello zoo di Berlino”, beh, sapevamo che “trance” gli si prospettasse, restavamo quindi, solo io e Robi, unici depositari di quell’agosto del 2000, e in effetti ci caricammo di responsabilità. Giungemmo al porto di Igoumenitsa, dopo una “traversata” di otto ore e mare forza 9, tra vomiti, rigurgiti di gyros, l’umidità a mille, cervicali e mal di testa, sacchi a pelo volati in mare e il miglior cunnilingus che Robi mi avesse mai fatto provare! Arrivammo ad Hellas, la bandiera greca ci accoglieva, mentre noi da lontano la salutammo con un delizioso Kataifi.
Voglio Parlare degli uomini timidi, delle loro pulsioni sessuali, della loro gestione, del loro modo di godere e delle loro inibizioni. Anche gli uomini diventano rossi in viso, anche loro hanno mille ansie e inibizioni, mezze parole e frasi a metà, “vorrei ma non posso”, anche loro ti sfiorano la mano per sbaglio, e ti parlano del tempo ballerino.
– Fiamma, che ansia! –
Quante volte me l’hanno detto! Non ho mai preteso che fosse il contrario, non ho mai cercato di nascondere la mia “voglia matta”, non mi sono mai mostrata inibita, seppur discretamente abbia cercato le tue dita, o la tua lingua, o il tuo cazzo. Non si tratta di fare la gatta morta, la santarellina, l’ochetta o la svampita, no! Diciamo che fiuto la situazione, studio l’atmosfera, i profumi, la tua espressione, il tuo grado di eccitazione, io non faccio nulla, sono solo sguardi, bocche, labbra, umori che si mescolano per l’amplesso. Niente prevaricazioni, solo amore.
Fiamma è irruente, di una irruenza maliziosa, dolce e sexy; è intelligente nel suo modo di approcciare, di carpire il momento, l’attimo giusto e i famosi “tempi dell’amore”. Robi era un ragazzo timido, me ne accorsi quando mi comprò il secondo kataifi sulla nave, e notai il suo imbarazzo, un disagio che trasmise anche a me, perché mi guardò tutto rosso, e io allora pensai subito a me stessa, e alla posa plastica che avevo assunto un secondo prima nella cabina degli outsider Carola e Luca, ( i nobili decaduti come loro, mica dormivano come profughi come noi! Eh!) seduta sul letto, a cosce aperte e con le gambe poggiate sulle sue spalle. Entrammo di nascosto, come due ladri, ladri di amore, senza parlare. Mi stesi sul letto minuscolo della cabina, spostai gli asciugamani freschi di bucato, quelle saponette piccoline che ti danno negli alberghi, restai senza fiato, mentre aveva i miei seni in bocca, mentre li leccava, mentre con il palmo della mano me li stuzzicava senza andarci troppo pesante.
– Perché mi stai fissando? –
– Perché mi eccita-
Mi prese allora i seni violentemente, cingendo il capezzolo con il pollice e il medio, guardandomi, senza mai smettere.
– Ho bisogno di te –
Non riuscivo a dire nulla, mi aiutò a spogliarmi, perché c’era troppo desiderio, avrei voluto rallentare quel momento all’infinito, eh già l’arte del rallentare, del raffreddare per poi ricominciare, l’arte di portarti sul precipizio e tirarti indietro, godere di quegli attimi eterni. A volte vorrei non venire per rimanere sempre in quell’Eden di piacere.
– Allora, avevo un buon sapore? –
Glielo chiesi di punto in bianco, mentre mangiavo il secondo baklava, e con il miele che mi colava sulla camicetta scomposta.
– Non posso fare a meno di quel sapore! –
Robi mostrava la sua timidezza solo quando non scopavamo, quando stavamo insieme ruggiva di passione, di ardore, ma quando non fornicavamo aveva questo aplomb da lord che mi dava sui nervi.
– Non riesco a dormire perché il mio letto è di fuoco –
– Ed io sarò la tua psyco killer, allora! –
Sbarcammo sani e appagati (almeno io), Robi si mise alla guida per Salonicco, dove ci aspettava Yannick.
– Tranquillo pubblico si era fatta anche l’anglo-greco, durante l’Erasmus a Basildon! –
– Sempre molto arguto e senza veli nelle tue conclusioni vero Esserino? Perché non ti suicidi gettandoti dal canale di Corinto, o da una Meteora? –
– Viene anche lui? E come farai con Robi? mi sa che glielo dovrai dire! –
Yannick era cambiato, era più cresciuto, maturo, aveva la barbetta lunga, i suoi occhi verdi erano sempre due piccoli fari luccicanti, il suo corpo era lo stesso di due anni fa, spalle larghe e muscolose, quello che bastava per far perdere la testa a Fiamma: spalle larghe, punto! Luca lo aveva invitato a trascorrere l’estate con noi, anche perché era greco e gli serviva un interprete per il festival.
– Ma che si era messo in testa? Di calarsi tutto l’Olimpo? –
Fiamma era perplessa, la vacanza stava prendendo una piega insolita e ambigua. Yannick abitava proprio nei pressi della grande Torre Bianca, e ci ospitò tutti, nel suo modestissimo attico da hippie de noantri! Non la smise di guardarmi per tutta la sera, lo vedevo da lontano seduto sulla poltrona, a cosce aperte bersi una birra e guardarmi, mi ricordo perfettamente a cosa fosse servita quella birra qualche anno prima, e lui stava esattamente su quella poltrona, ed io “concentrata” su di lui, ebbi bisogno di un sorso di birra gelata per l’occasione!
– Perché non ti sei fatta più sentire? –
– Sono tornata in Italia Yannick, come facevamo, lo sai che io da sola non ci so stare –
– Sì, lo so è il tuo “marchio di fabbrica”, “accendete Fiamma che al buio non ci sa stare!”–
– Perché non dormi con me stanotte? –
– Perché non sono sola –
– Non mi dire che ti stai scopando Robi? –
– Sì, ci sto scopando! –
Yannick non era timido, ma sfacciato, franco, fiero. Un tipico leone ascendente leone. Non dava se non riceveva, il rapporto con lui era del tipo dominatore-succube (in senso lato, ovviamente!) Io dovevo stare ferma, zitta, non potevo muovermi, una bambola gonfiabile, un trastullo e un giochino, geloso all’inverosimile non potevo mettermi una gonna, non potevo truccarmi, ci mancasse poco che mi facesse mettere il burka! Era un po’ pesante a dire il vero, ma l’idea di questa “possessione” seppur bonaria e gestibile mi eccitava, e lui recitava la parte. Io era la donnina di facili costumi, e lui il marito geloso (cornificato!).
– Chiudi gli occhi, e non aprirli fin quando non te lo dico io –
Era una sera fredda, la sciarpa mi avvolgeva tipo passamontagna, avevo un vestitino cortissimo sotto il parka e mi stavo congelando le gambe a Waterloo Road. Yannick mi fece entrare in una sorta di boudoir tappezzato di rosso, al centro dell’ingresso c’era un tavolino in stile Liberty, con dei pavoni stilizzati che lo sostenevano.
– Ancora pavoni, questo era un brutto segno! – pensai tra i denti.
– Hey, non mi avrai portato mica in un bordello? –
Era serissimo, non lo avevo mai visto così, in genere una risata se la faceva, anche se era un maniaco del controllo e voleva fare sempre il protagonista di ogni cosa, mi spiegò che era un club “particolare”, dove molte coppie andavano lì, per distrarsi e trascorrere una serata in piacevole compagnia. Una cosa normale, una semplice “divagazione su tema”. Si accedeva su invito, e la fauna che c’era lì, era tutt’altro che composta da casalinghe e casalinghi disperati! Erano tutti vestiti bene per cominciare, poi musica jazz di sottofondo, luci soffuse e alcol di calsse.
– Ho capito, stiamo sul set di Eyes Wide Shut! –
– Se fai ancora una battuta del genere ti accompagno a casa, non capisci che mi fai scendere tutto quando fai così? –
– Non credevo fossi così suscettibile alle mie battute! –
– Un’altra parola e ti riaccompagno! –
– Al limite me ne vado da sola! –
Ci dividemmo, ed io esplorai la Maison Rouge, non avevo la minima intenzione di farmi toccare da qualche sconosciuto, anche se l’idea mi riscaldava un pochino, ma non potevo, dopo Fiamma avrebbe davvero bruciato da qualche parte all’inferno, divorata come i figli di Cronos dai sensi di colpa. Uscii fuori la terrazza che dava su un giardinetto all’inglese, piccolo e curatissimo, sembrava un boschetto in miniatura. Mi stavo accendendo una sigaretta, non feci in tempo a prendere l’accendino che mi si piazzò davanti un uomo, credo sulla quarantina, non molto alto, vestito con una camicia bianca e un paio di jeans, mi resi conto di stare in quel luogo fisicamente, ma la mia mente era altrove, persa in un labirinto di rose appuntite, pensavo a tutti i film sul tema che avevo visto, e chiedevo a me stessa se non era il caso di prendere la borsetta e andare via a gambe levate!
– Sei nuova! Come mai alla Maison?-
– Sto con un mio amico, che non riesco a trovare, ma stavo per andar via. –
– Dicono tutti così! –
Con un sorrisino compiaciuto e ottimista per l’immediato futuro, diede un’occhiata al mio culo. Avevo “une petite robe noire”, aperta sulla schiena, con una collana di perline che scendeva fino alle natiche, scarpe alla schiava con supertacco, peccato che il parka rovinasse tutto, ma il signorino non aveva detto di portarmi alle “folli notti di Caligola!”, quindi non avevo “lucidato l’argenteria per bene!”
L’uomo misterioso mi offrì il suo accendino, avvicinandosi percepii il suo alito, che sapeva di menta fresca, aveva messo anche un dopobarba al sandalo! Aveva i capelli biondi, le lentiggini, e l’aria di un mezzadro del Kent!
– Sono mossa dalla curiosità, volevo bere e guardare una pecorina dal vivo, c’è qualcosa di sbagliato in questo? –
L’uomo scoppiò a ridere, io volevo solo che quello stronzo di Yannick mi riportasse a casa. Allungò una mano sui fianchi, ed io scivolai dalla parte opposta.
– Scusa mi aspettano –
Finalmente ritrovo Yannick, si stava abbottonando i pantaloni.
– Ti sei fatto fare un pompino? –
– Ma no che dici? E’ che non ti trovavo, ti ho cercata dappertutto –
– E hai pensato bene di farti fare spompinare da qualcuno!-
– Ma lo sai che io amo solo te, solo che tu non c’eri –
Fuori il balconcino pieno di anemoni e ciclamini, Fiamma ripensò a quella sera, e al fatto che non se la sentì di spingersi così oltre, così fuori dalle convenzioni, pensò che in fin dei conti era una ragazza ordinaria, che era timida, introversa e standardizzata, e che recitava la parte della tuttologa del cazzo! Pensò che era fragile, delicata e timorosa.
No, non volevo che Yannick trascorresse le vacanze con noi, a lui erano legato troppi ricordi negativi, con lui mi vedevo una donnina ordinaria, lui, non lo avevo in pugno, e non mi piaceva fare la seconda in panchina!

Yannick le cinse i fianchi e avvicinò le labbra al collo, se non fosse stato uno stronzo, quell’immagine di loro due, in rilievo, sullo sfondo dell’imponente Torre Bianca, poteva essere davvero la fotografia di un film in bianco e nero degli anni Quaranta. Un film dove Lauren Bacall abbracciava appassionatamente il suo Humphrey, vestita di un bellissimo abito lungo perlato che gli lasciava la schiena scoperta, con la sua immancabile sigaretta, serrata tra quelle superbe labbra rouge Chanel! Che gli sussurrava: – sono io che ti tengo in pugno, my dear! –

– Ma non ti manco neanche un pochino? –

Conosceva quella voce da brivido, conosceva le sue mani, che stavano facendosi largo sotto la minigonna, conosceva quel venir meno, quel “deporre le armi”, quella resa che il suo corpo dava, ogni volta che un uomo la toccava.

– Non farmi fare la troia, ti prego!-

– Voglio vedere la bandiera bianca, Fiamma! –

Fiamma si staccò di colpo, non voleva ricascarci, non voleva, punto. Yannick, si mise a braccia incrociate sul davanzale, si accese una sigaretta, imprecava in greco. Vedevo il suo cazzo duro dai pantaloncini da boxeur che si era messo, in quell’istante entrò Robi, era scalzo e in mutande, era tardi, mi chiese a che ora avessi intenzione di venire e letto.

– Non ti va, se vi raggiungo? –

– Sì, così ti becchi un pugno e perdi il tuo sorrisino da efebo! –

– Può capitare, non sarebbe la prima volta! A Basildon, non facevi così la puritana! Che ti è successo, eri una Fiamma viva, splendente, calda e accecante! –

Me ne andai a letto, bevendo il mio succo d’ananas. Mi sdraiai di fianco, Robi mi mise una mano sul culo e strinse, gli dissi di no, che avevo il ciclo, che non stavo bene. Non riuscivo a dormire, Carola e Luca scopavano come conigli, Paolo parlava in giapponese, con uno azzeccato di giochi on line, Yannick, era alla ricerca di un buco e lo trovò in Valentina. Neanche il tempo di rialzarmi dal letto, prendere Memorie di una Geisha, che già gli stava a toccare Miss Pat! Mentre sfogliavo le pagine, chiusi gli occhi, portai la testa all’indietro, respirai a fondo quell’aria salmastra, mi immaginavo seminuda a ballare sulla spiaggia di Stavros con Yannick che tentava di coprirmi con un accappatoio.

– Un altro fallimento, Fiamma, un’altra delusione, un altro uomo da tenere alla larga –

Io li ho amati tutti quegli uomini, tutti, nelle loro manie, nelle loro depressioni, nei loro complessi edipici, nelle loro costernazioni di fede, e nei loro amplessi liberatori. Li ho amati tutti nelle sere freddo d’inverno davanti al camino, quando mi vedevo brutta, quando ero giù di corda, quando mi dicevano che mi amavano, quando non riuscivo a stare da sola e mi bastava fare l’amore per ritornare come nuova, una Fiamma scintillante!

A Yannick piacevano anche gli uomini, non riuscivo ad accettarlo, avevo messo in conto il dovermi confrontare con il mondo femminile che se lo contendeva a suon di messaggini, telefonate e scopate che gli facevo credere essere clandestine, così lo stronzo si ricamava il quadretto hard da appendere, e gli veniva più duro! Lo avevo perdonato, ci eravamo perdonati, ma io ero troppo giovane, e confrontarmi, anche, con il mondo maschile era troppo, rischiavo di andare in tilt. La trasgressione, l’accettazione di certi Status Quo all’interno di una coppia sono difficili da gestire, si rischia il tracollo, la capitolazione. Ripetevo a me stessa di essere una stupida, di volere all’interno del mio mondo perfetto quel pizzico di sale che rendeva la vita meno noiosa, senza compromettermi. cazzo, con Yannick l’avevo vissuta sulla pellaccia la trasgressione, ma poi non mi andava a genio, ero insofferente, e lo vedevo come un deviato e un pervertito, che la sottoscritta chiamava nei periodi off!

Respirai a fondo, stendendo le gambe sulla sdraio, ascoltando l’eco del mare e seguendo il richiamo del sale. I ricordi era affacciati a quella Torre immacolata, mi chiamavano, urlavano il mio nome.

La pietà cosa può offrirti? Cosa può darti? Può renderti più ricca, più piena? Perché proviamo pietà?

Come nella sala d’attesa dal dentista. Quanto possono essere rivelatrici quelle ore. Fiamma stai ricominciando a farneticare? Mi guardavo assopita, e allo stesso tempo ben sveglia, un poster del Colosseo, Ora, il motivo sul perché negli studi medici ci fossero poster raffiguranti Capri, La Venere di Botticelli e la Laguna Veneta mi è sempre stato ignoto! E ripensai a quella frase, che lessi poco più che ventenne: Vos mea mentula deseruit, dolete, puellae, pedicat culum. Cunne superbe, vale. (Piangete ragazze, il mio cazzo vi ha abbandonato, ora incula culi. Fica superba, addio.)

No, non ho pietà per uno come te, che ha rubato il mio tempo, tempo che gli ho dedicato, tempo che pazientemente è stato scandito per te, in me, assecondando le tue inclinazioni, lasciandoti i tuoi spazi, anche se ti ho sempre visto, dietro le sbarre, come quella Pantera di Rilke, nera e riluttante ai soccorsi. Non ho più parole da versarti, ne sangue, solo veleno. Il trapano scolpiva i miei denti, e quel suono metallico e graffiante mi dava un nervoso, che avrei preso ben volentieri la cannula di quell’acquetta, per ficcargliela in gola, a quella specie di “apparato del Golgi” che mi teneva la bocca aperta! Che incubo del cavolo! I ricordi adesso stendevano i panni con le mollette da quella Torre Bianca.

Era il periodo in cui chiedevo la tesi all’università.

– Non puoi scegliere John Keats, è morto troppo giovane-

– Professore mi scusi, ma che sta dicendo? –

– Non puoi scegliere John Keats, è morto a venticinque anni, ventisei li avrebbe compiuti il trentuno ottobre del 1821, e lui è passato a miglior vita solo il 23 febbraio! –

Scesi le scale dell’ex convento seicentesco lentamente, erano di quelle scale lunghe, dove non potevi gestirne il ritmo, avete presente quando per scendere un gradino c’è bisogno di fare due passi? E tu ti scoordini? E rischi di inciampare e rotolarti? Però, cazzo, volevo correre su quelle scale, ma non potevo farlo, sennò rischiavo di cadere. Le scale della facoltà di Lettere erano così: ingestibili, rinchiuse nel tufo e nel granito, nel marmo e nei sampietrini. In qualche anfratto ci trovavi qualcuno a pomiciare, a fumare, a studiare. Quando mi addentravo in quei cunicoli il pomeriggio tardi, canticchiavo sempre The Rain Song, quel cortile era perfetto per Lady Goodiva, e per qualche bivacco di Hobbit!

Incontrai Yannick, camminava con Luca sottobraccio, e gli baciava l’orecchio.

– Ciao Fiamma, come stai? –

– La donna del mistero, scompari non ti fai più viva, e poi mi chiami per leccartela? Eh? Non si fa così! –

– Sei impegnato ad occupare la bocca con qualcos’altro, non voglio interferire, sai quanto sia discreta –

– Lo sappiamo, lo sappiamo – Mi canticchiarono in coro.

– Stasera ci sei? –

– Stasera ci sono-

Volevo stare con lui, sapevo che c’era anche Luca.

Per l’occasione misi una gonna cortissima, un po’aderente e con motivi tribali bianchi e neri, una maglietta larga che mi lasciava una spalla scoperta, scarpe basse, tipo espadrilles. Non misi il reggiseno, che tempi quando la mia terza coppa C stava su da sola! Capelli sciolti fino al sedere, lisci, una ciondolo con un gufetto e solo un po’ di rossetto. Yannick mi venne a prendere col motorino.

– Come faccio a salire! –

– Mi piace quando per strada ti vedono il culo! E io li ammicco!-

Fiamma ogni azione che hai compiuto, anche questa che stai accingendo a fare ha una spiegazione, che è chiara davanti a te, non è annebbiata e dettata dall’incoscienza, no, è diafana ai tuoi occhi, limpida al tatto, melodiosa nei tuoi timpani, ambrata alle tue narici e speziata sulla tua lingua. Stavo vaneggiando, sarà stato il cicchetto di rum e pera bevuto d’un colpo prima di uscire. Devo smetterla con l’alcol, cazzo! E poi, quello che mi dice che non posso fare la tesi su John Keats, perché è morto troppo presto, queste affermazioni minano le mie sicurezze e i miei punti fermi, e io ho un disperato bisogno di qualche paletto piantato a terra!

Yannick abitava in un palazzotto neoclassico, con tanto di timpani e frontoni e fregi mitologici. Era un po’ in rovina a dire il vero e non era tutto accessibile, non era neanche tanto grande, quanto basta per renderlo suggestivo e accogliente.

– Hai chiesto poi la tesi? –

-Lasciamo perdere! –

-Giornataccia as usual?-

Saluto Luca, stava sul divano guardando una puntata di South Park, una delle tante dove Kenny muore.

– Mi avvicino per salutarlo, mi fermo davanti a lui, si alza pigro per accarezzarmi affettuosamente il retro ginocchio.

– Sempre più carina! –

Prende il magic box dell’erba, mi siedo anche io, gli passo le cartine. Yannick stava chiudendo i gatti sennò scappavano. Faccio un tiro lungo, mi sale una botta nelle tempie, come se il mio cranio venisse inondato di acqua, di un’acqua calda. Mi stendo accompagnata dall’onda lunga, tra le braccia di Luca, sento il suo profumo, sempre il solito che è accentuato, amplificato, moltiplicato all’inverosimile, gli abbassai i jeans, quasi in automatico, era già duro.

– Stai buono, non gli do il permesso di entrare da nessuna parte! –

– Cominciai a toccarlo sopra i boxer, accarezzandolo, coccolandolo, guardandolo, ammirandolo.

-Sono lusingata! –

Lo sapevo che Yannick stava dietro la porta.

Lo presi in mano, mentre gli baciavo il collo, mentre lo annusavo, mentre strusciavo le guance sulla sua barba che cominciava a pizzicare, con un movimento lento, pigro, senza fretta. Gli facevo capire, con tutta me stessa, che mi piaceva, che volevo farlo venire, che volevo idolatrarlo, che volevo il suo piacere, che volevo il suo liquido iridescente. Mi piaceva da morire il rumore che faceva la mia mano mentre andava su e giù. La canna non mi faceva concentrare abbastanza, era una lotta impari contro l’estasi di quell’atto e di quel momento. Cercavo di trasmettergli con la mano tutte quelle sensazioni, come se la mano fosse stata un’antenna o un radar.

-Yannick ci sta spiando, sta guardando il tuo cazzo e si sta masturbando lo sai? –

-Quanto ti piace Yannick?

– Tantissimo! –

-Piace anche a me lo sai? –

Allungò una mano, per sentire quanto fossi bagnata, e se la portò alla bocca e al naso, per sentirmi, e per farmi sentire.

I miei capezzoli, in rilievo, dalla maglietta chiamavano la sua bocca, ero trasportata verso di lui, verso il suo godimento, le sue dita si insinuarono dentro di me, il pollice era fermo sul bottoncino magico, la mia mano scivolava su di lui. Ancora rumore e nessun dolore.

Il rumore dei miei bracciali, il rumore del suo cazzo, di quello di Yannick, i rumori della casa, del vento fuori, dei gatti che graffiavano la porta, il rumore delle voci soffocate, dello stantuffo azionato dalle dita e dall’ acqua dentro Miss Pat, del piacere rincorso, della concentrazione, dell’impegno.

Venimmo insieme, così era facile, non implicava tante cose, solo le nostre mani avevano “peccato”, così era tutto privo di responsabilità, perché Yannick aveva solo “guardato”, e noi eravamo salvi e puri e felici.

I panni erano asciutti, adesso, e qualcuno li aveva ritirati dallo stenditoio, e mi svegliai di colpo, tutta sudata, perché su quelle dannate scale dal ritmo ingestibile mi ero messa a correre, cercandomi da sola quell’accappatoio per buttarmi sotto la doccia. But hey where have you been?

Alessandropoli, la città dedicata ad Alessandro Magno, a metà strada tra l’Europa e l’Asia, vicino allo stretto dei Dardanelli, nel mezzo della Periegesi della Grecia e il Bignami della bancarella. Mi piace “fare l’uomo”, lo ammetto, mi piace prendere l’iniziativa, pilotare la serata, la mattinata, l’alba, il tramonto e il tardo pomeriggio verso il mio continente nero, farmi fare quello che voglio, e perché no, far perdere il Sig. Freud in quel continente nero!
Mi piace “fare l’uomo”, ammiccare ai bei ragazzi, dirgli: – ehi sculetta un po’, fammi divertire! – Anche se, gli faccio credere che a guidare sono sempre loro, gli faccio credere tante cose, sono anche in grado di farmi dire quello che voglio. In un nanosecondo sono capace di fargli lo screening della loro personalità, di disegnare la loro mappa astrale, se hanno o meno le costellazioni contro, se l’ascendente influisce sul loro orgasmo o se gli piace il curry, i raggi X della loro anima, la TAC del loro deretano, ok, no, quello no, dai! Non è presunzione, è entrare in contatto, stabilire energie, sintonizzarsi, diciamo che, con fare altezzoso e glaciale, becco sempre il giusto! E quanto mi secca avere sempre ragione! Come capita spesso di mandare a fanculo qualcuno a volte! C’est la vie! Mi piace fare anche la gattina bisognosa di coccole, la fredda calcolatrice, l’impavida avventuriera, la femme fatale e la bambina ingenua, la cagna fedele, l’intellettuale-so-tutto-io, la donna in carriera e la grunge girl. Qui posso rivelarlo, in questo luogo sospeso tra l’Eldorado e Waterloo! L’ iCloud della mia vita! Perché? C’è qualcosa di sbagliato?
Tranquilli non detronizzo nessuno, lo scettro c’è l’avete sempre Voi, e no, non è neanche la manfrina sulla dialettica dominatrice/slave, no quelle cose non le reggo. E’ una confessione, è una lotta continua tra le proprie sicurezze, fragilità, è un gioco per sdrammatizzare, una piacevolissima corrispondenza di amorosi sensi tra i vivi, su quello che vorrei ricevere da un uomo e su quello che vorrei dargli: sesso, amore, vita prorompente. Parlo così, perché mi sono scottata a volte, e il bruciore è insopportabile, i segni poi restano e le cicatrici non vanno più via, e bla bla bla, non faccio neanche una gerarchia, del tipo, se fai solo sesso vuol dire che non ami, o che se fai solo l’amore vuol dire che non fai sesso! Precisamente cosa significa? Sono scettica su quelli che affermano: – io scopo, faccio sesso, nessun coinvolgimento! Ma sono solo io la donna che, su questa faccia della terra, ci mette ogni centimetro quadrato di epidermide mentre scopa? Non sono mai riuscita a scindere le due cose, sesso-amore, ho amato tutti, sto premendo il bottoncino verde dell’iCloud, perché voglio che tutte queste parole si depositino lassù, in un luogo imprecisato, su un groviglio di fili elettrici o sulla cazzo di nuvoletta paffuta del cielo azzurro! Ho amato tutti, ho dedicato loro del tempo, li ho ascoltati, mi hanno ascoltata, se mi hanno messo a pecorina, non è perché volevo che mi scopassero nel modo rude e da porca, è perché così sento di più, è perché mi piace, se ho fatto un pompino e perché mi piaceva, è un dare e ricevere, quello sempre, ma è anche un piacere, far sentire le stesse tue sensazioni al tuo uomo, amarlo, accoglierlo, stringerlo forte e non lasciarlo più, ed io vengo così, se lui è sintonizzato su di me! NB: tutto questo, non si “ricava” certo da una “botta e via”, e da una “wham bam thank u mam”, sono venuta anche con una sveltina alla discoteca del campeggio a diciassette anni se per questo, ma ripeto non faccio testo. Li ho amati tutti.
Yannick aveva fatto impazzire Fiamma, aveva reso Fiamma sua schiava, lei tentava di liberarsi da quelle catene, ma niente, non ci riusciva. Quando entrava in quel vortice: o-il-cazzo-di-Yannick-o-la-morte, erano davvero cavoli amari, tutto iniziava con un prurito alle cosce, con una frenesia che lentamente saliva fino alle tempie, con l’inquietudine che la prendeva, con il Deficit Di Attenzione a mille, con la concentrazione sfalsata, la crisi d’identità, le parole a vanvera, e Miss Pat che nuotava in un mare di gioia, arrivò perfino a parlare greco, perché il suo telefono un giorno era irraggiungibile e dovette chiamare casa sua a Monastiraki e parlare con sua nonna che sputava e faceva i rutti! Ne valeva la pena, Fiamma avrebbe rifatto tutto. Esserino ne era convinto, e con un megafono sponsorizzava Fiamma a Yannick, gli urlava: -non lasciarla sola, stai vicino a lei, non fare lo stronzo con le altre, lei non può seguirti, non lo vuole, lei vuole una roba ordinaria, vuole che le apri lo sportello della macchina, che le porti i fiori, che cucini per lei, lei vuole essere solo tua!-
Al porto li aspettava la nave per Samothraki, Yannick era felice guardava Fiamma come per dire: stai ancora in tempo, unisciti a noi! E da lontano vedeva la sua mano sul culo di Vale. Robi aveva capito tutto, Fiamma non faceva neanche molta fatica a nasconderlo, ma Robi da uomo intelligente, o quasi, stava zitto e le assicurava la sua presenza, la sua dose di sicurezza, il suo cazzo (almeno per quella vacanza anno duemila!) e a lei andava bene così. Appena scesi dalla nave, si vedeva solo una montagna enorme, che si ergeva, tipo capezzolo appuntito dall’Egeo. La Grecia era in fissa con le tette, pensò Fiamma. Dall’Acropoli di  Atene, per esempio,  il quartiere del Licabetto, sembrava una enorme “boop” appuntita, ebbravi! Ecco spiegato perché c’erano i lupi anticamente lì! Affittarono una casetta nel bosco, con le finestre blu! (tanto pe’ cagnà!).
– Ma da quanto tempo è chiusa sta casa? Sa di fosso, di terreno, di erba bagnata! Voglio la Tonnaraaa!-
– Ti lamenti sempre, tu? Eh? In questo non sei cambiata-
-Yannick mi lamento, perché non mi dai più il tuo cazzo 24h, lo sai!-
Glielo disse all’orecchio con una voce roca e graffiante, dandogli una pacchetta su quel culo perfetto.
– Ma perché ci sono i mobili in vimini, mi ricorda casa dei nonni, ma cazzo, porta male il vimini!
Mi fa venire il prurito, sto tanfo di chiuso, che m’evoca scarafaggi e morte!-
Robi si diresse immediatamente in camera, appoggiò gli zaini sul letto, venne da me a passo spedito, mi prese in braccio, con una mano tra le cosce.
– E’ da Samothraki che ti voglio-
-Anche io ti volevo, ma poi ho visto Yannick, ma questo non ci toglie nulla, tranquillo!-
– Ma non puoi dirmelo così, sbattermelo, così, in faccia, c’è la più lungo di me? Mi è sceso tutto Fiamma-
-No, vabbè, non ci credo che l’hai detto! Ancora con le ansie, con le paure, ma dovrebbero averle le donne, lo sai? Le dovrei avere io, ecco perché: è colpa tua, del tuo fare da insicuro che le donne sono diventate delle troiette che la danno senza sentire nulla, è per colpa tua, per fare la carità al tuo cazzo che si sente escluso e solo, che sono diventate le “gettoniere dei tempi nostri”, così poi pensano, ah siamo salve me l’ha dato, gli piaccio, sono bella! Evviva! E intorno c’è il vuoto! C’è l’insetticida per le blatte!
E ti vengo vicino, e ti sussurro all’orecchio che ho una voglia matta, e non va bene, perché devo recitare la parte della remissiva-che-viene-sedotta, e faccio la parte della timorata-di-Dio, che così puoi portare sulla strada del peccato, e non va bene perché poi sto troppo immobile, e non ti do sfizio! E mi metto un completino sexy in pizzo nero (perché-si-sa-col-nero-non-si-sbaglia-mai-e-poi-voglio-dì-è-un-must-dell’erotismo-evergreen!) e non va bene! Perché poi non ti piace quando faccio la parte della puttanella, perché diventi geloso, ti ripiombano le insicurezze e fai i confronti con le misure falliche! Dei maschioni che mi sono fatta! Ma dico io, si può fare della sana copulazione tra persone adulte consenzienti?-
-Hai finito di dare sfogo alla tua parlantina? Di fare questi ghirigori che ti ascolti solo tu?-
-Hai ragione sono una stronza, solo che pensavo di ricostruire tutte le tue certezze e rifarti daccapo? Ed io ho un bisogno disperato di ascoltarmi! Di smontare le persone, e rimontarle come dico io, perché ho una paura folle di mostrarmi debole ed esposta.
-Andiamo al mare va! Ma già ti sei calata? Ti ha coinvolto Paolo, lo sapevo, sulla nave l’ho visto camminare sul ponte a parlare coreano!-
-Era giapponese, scusami non volevo-
– Ne riparliamo dopo cena-
-Non tenermi il broncio, faccio la brava, non mi lasciare da sola su questa isola deserta!- Fiamma gli faceva le fusa e il musetto triste, attorcigliando le labbra e chiudendo gli occhi.
-Hai visto ti ho fatto ridere!-
-Ti sei messa il costume, verde smeraldo? Quello per cui la tua terza coppa C, è diventata una quarta abbondante?-
-Sono le mie tette in questa fase del mese, scemo-
-Che bel periodo: “il periodo tette”, facciamo un quadro!-
Presi solo il pareo, mi è sempre stato un po’ antipatico il pareo, l’ho sempre trovato stupido, insulso, insignificante, detto inter nos!
Arrivati alla spiaggia decisi di fare la femmina. Ero già abbronzata e i miei capelli lunghi nascondevano il topless che volutamente portai, gli slip del costume erano invisibili, i laccetti scendevano si lato e mi facevano il solletico sui fianchi, scendemmo i gradini che ci aprirono le porte di una spiaggia deserta con una sabbia bianca tipo borotalco, na cartolina stile “wish you were here” insomma, il sole delle cinque batteva ancora, anche se si stava abbastanza freschi, avevo voglia di tuffarmi subito, come quando da piccola mi prendeva quel raptus di cercare il mare a tutti i costi, a discapito delle mamme che prendevano il sole, dei castelli che abbattevo, delle cicche di sigarette accese che beccavo sotto i piedi, e correndo come una forsennata (perché la sabbia scottava) mi lanciavo in acqua. No, stavolta non l’ho fatto, ho risparmiato a Robi, la visione di una otaria che si tuffava! Io invece uscì dall’acqua, come una Ursula Andress versione mora, una Bo Dereck dell’unico film andato in porto. Mi stesi a pancia sotto sull’asciugamano, Robi arrivò con un Mocaccino freddo, prese un cubetto di ghiaccio leccò via il sapore e me lo passò tra le scapole, nell’incavo della schiena, passando per i lombi, scostò il bikini, mi pizzicò il sedere, lo accarezzò, gli diede una pacchetta forte e ne addentò la carne.
-Ahi, però mi piace il rumore, fallo di nuovo!-
-Perché non mi ami?-
-Non è vero-
-Non vuoi avere una relazione con me, perché? Stiamo bene insieme, voglio essere il tuo compagno, non mi va di scopare solo, lo sai!
Yannick aveva destabilizzato tutto, quella vacanza, quell’isola, quell’equilibrio tra me e Robi, io non mi sentivo di dare risposte in quel momento, mi girai per zittirlo con un bacio, lungo appassionato, profondo, uno di quei baci dove sei alla ricerca di qualcosa, di qualcosa che ti apra, che ti illumini, un segno, un segnale, un simbolo.
Robi, mi toccava dappertutto, io lo toccavo dappertutto, sapeva di salsedine, di caffè, di sabbia bagnata, di tutto e niente. Io aprì le gambe subito, fui subito sopra di lui, senza togliere il pezzo di sotto del costume, senza spostare i capelli che coprivano i miei seni, succhiò i miei capezzoli con i capelli, inziò la danza, l’onda, il dondolìo, l’andamento in avanti, il risucchio e la discesa, e ancora l’andamento in avanti, il risucchio e la discesa, come quel mare che sentivo dietro la mia schiena, come il Meltemi che mi distraeva, come i miei pensieri confusi, mixati, assetati di ordine, un mare assetato di ordine, pensieri che cercavo di sgrovigliare lentamente in quell’amplesso marino, concentrati su Robi e sul migliore Yannick d’annata! Il sesso di quella giornata fu come un’onda mutilata, c’è ne tornammo a casa, e Robi mi cucinò il riso al curry.

La sabbia assomigliava ad una poltiglia grigiastra e nera, meglio conosciuta col nome di “fango”, mescolata a vomito e non so a cos’altro! Intorno gli alberi sembravano gridare: andatevene! E riuscivo perfino a vederne i rami che spingevano quell’orda di zombie che si muoveva a scatti. La puzza di fumo si annidava in gola, la puzza di sudore ti circondava in una morsa talmente stretta che dovevi alzare il viso al cielo per respirare, o dovevi attendere mister meltemi che ti soffiava un pochino, dandoti così, un secondo di ossigeno, la puzza di alcol era stagnante e insistente, mi trovavo in una risacca! Mi trovavo in una fottuta bolgia dantesca, anzi mi trovavo nel nono cerchio dell’inferno ed ero prossima alla Natural Burella. Dal palco due deejay assomigliavano a Belzebù, divoravano quintali e quintali di ovatta! Avevo bevuto troppo, mi ero fatta otto rum e pera nell’arco di mezz’ora, e tutto questo, prima di uscire di casa! Perché avevo questa bizzarra abitudine? Retaggio, forse di quella volta che andai a fare l’esame di maturità con un bicchierozzo di Cointreau in corpo? Da allora non ne ho potuto più fare a meno, avevo bisogno di qualcosa di dolce che mi svegliasse un po’ (diciamo!) e dovevo scegliere tra il Cointreau e il Vov. Il Vov lo bevevo sempre a casa dei nonni davanti alla tv, una sera a nove anni riuscì addirittura a sedermi alle poltroncine di Tribuna Politica, e a parlare con Craxi e Occhetto, ma il non plus ultra era berlo davanti a Galaxy Express 999, quella sigla è stata la colonna sonora di tutta la mia infanzia, (non mi piaceva granché la storia, non si baciavano, non c’era una storia d’amore, nessun tipo di approccio e quindi era scartato a priori!) ma il Vov rendeva l’ascolto quasi mistico, il buio di quell’universo mi dava i brividi, avrei voluto salire sul quel treno a tutti i costi, mi sarei venduta tutte le case di Barbie, compresa quella di città con la Famiglia Cuore, segregata apposta per pagarmi il biglietto! Mi sentivo la casellante dello spazio, la Maetel mora, fatta di carne, ossa e sangue che salvava Tetsuro Hoshino, e che una volta giunti su Andromeda se lo sposava pure! Non ho mai perso l’abitudine di cambiare il finale alle storie, di modificarle a mio piacimento. Ecco, perché, il Vov era “funzionale”, mi rendeva creativa!

Adesso su quell’isola adibita a culti misterici e luogo di transumanza di “fattoni” di mezza Europa, ero cotta! Come da canovaccio, come da routine, come volevasi dimostrare. Mi sentivo immobilizzata dall’ovatta, mi rendo conto di dover spiegare il concetto di “ovatta”, ma ogni volta che mi sballavo, io pensavo all’ovatta, che usciva tipo blob dal sacchetto di plastica e aumentava, e aumentava fino a bloccarsi in gola, una scena splatter insomma, avevo la sensazione di essere bloccata dalla gommapiuma, immobilizzata dalla gelatina, come se il pallone di un enorme big babol mi fosse esploso in faccia impedendomi di respirare.

-Hey patata, sei croccante al punto giusto!-

Robi era piuttosto “lanciato!” Mi stampò un bacio sul collo, spostandomi i capelli e toccandomi il culo.

–Ti ricordo che gliela hai data in meno di 24h dal vostro arrivo a Samothraki, che pretendi? Il ragazzino si sente proiettato nello spazio! –

-Non voglio che mi tocchi! Con quelle manacce! –

-Ricorriamo anche alle frasi fatte: “le manacce!” E se arrivasse a casa, mentre tu stai scopando con Yannick, dirai: “o cielo mio marito!”-

-Esserino hai qualche problema con me? Il fatto che ti abbia concesso di essere la mia coscienza, e di averti dato una suite nel mio orecchio destro non ti giustifica dall’essere un grande rompiscatole! Vai un po’ a berti una birretta col grillo parlante! E vedete se riuscite a scoparvi la fata turchina! E non mi annoiare!-

Incredibile, il mio essere umorale e volubile, in Italia non vedevo l’ora di stare nuovamente con Robi, mi vedevo con lui nel fermo immagine di una lunga estate calda, in un amore rinnovato e dolce, e invece mi ritrovavo con uno sconosciuto che ballava come l’uomo di latta del Mago di Oz!

-Voglio tornare a casa!-

-Che hai detto?-

-Non mi sento bene, ho bisogno di tornare a casa!-

Robi mi teneva i polsi, cominciava a farmi male, prese un braccio, mi strattonò! Voleva portarmi in pista, tra i dannati -apri la bocca!- aveva una pasticca, non riuscivo a parlare, ancora quella sensazione di soffocamento, come se in gola mi avessero conficcato dell’ovatta. Improvvisamente Yannick sbucò dalla folla, prese Robi alla gola e gli diede uno spintone che lo fece rotolare tra quegli ammassi umani, io stavo zitta, non riuscivo a dire nulla, vedevo la scena come se avessero messo Pause al videoregistratore e il nastro andava a rallentatore, a scatti, tipo approdo dell’uomo sulla luna. Riuscì soltanto a dire –non farlo male- e crollai.

Mi svegliai la sera seguente, nella casetta azzurra, Valentina si era portata un turco, lo trovai in cucina che camminava solo con la maglietta. Non vedevo nulla, il pavimento era ancora un po’ instabile e avevo uno di quei qual di testa formidabili, da Oscar!

-Buongiorno!-

– Ti preparo la cena?-

– Ieri hai fatto la monella-

-Non parliamo ok?-

-Ti ho tenuto la fronte tutta la giornata-

Quando mi affligge qualcosa, cerco di non ricordare cosa mi torturi, quindi se non riaffiora alla memoria, quel problema per me non esiste, anche se resta la sensazione di chiodo piantato nel cranio! Quella sera avevo tipo una vite a doppia intelaiatura fissata con tanto di cacciavite, all’altezza precisa del terzo occhio, e in più dovevo sorbirmi Yannick, che stava in modalità salvatore-della-mia-vita-nonché-di-Miss-Pat-nonché-uomo-in-vena-di-pettegolezzi!

-Dov’è Robi?-

-In spiaggia, non è mai tornato, ho mandato Paolo per assicurarci che fosse ancora vivo, purtroppo lo era, è rimasto a dormire sotto il chiosco dei gelati, aveva le gambe al sole però, spero riporti un ustione di terzo grado! –

Nel frattempo, Robi varcò l’uscio di casa.

-Abbiamo un po’ di Aloe?-

-C’è l’ho io, non me la consumare tutta che è bio! Sta nel mobiletto in bagno.

Gli gridò Valentina dal giardino, mentre il turco le massaggiava i piedi.

HO DETTO CHE STIAMO AFFONDANDO MA LUI RIDE E MI DICE CHE VA BENE

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I profumi della cucina penetravano in quella casa fredda e deserta, i profumi si spargevano a macchia d’olio, come un secchio d’acqua rovesciato a terra o come un gas lacrimogeno. Mi mancava il sapore del pane caldo, della minestra coi ceci, del vino rosso sorseggiato insieme a te, mentre facevi finta di guardarmi, facevi finta di amarmi, facevi finta perfino di esserci, nella nostra casa a strapiombo sul mare. La nostra casa: è lei la nostra voyeur, è fatta di ciondoli, suppellettili, pentole, gingilli e libri, ha il parquet tirato a lucido, i tappeti con i pavoni e tante lampade colorate, i libri stanno pure nella salle de bain, sì, quella dove il cesso non ci sta.

La nostra casa ha tante mensole piene di storie, fotografie e libroni. Uno sulla Magnum, un altro sui Rolling Stones, la foto mia che cammino coi Naga Baba nudi, sta all’ingresso, incorniciata, quasi come un idolo, un feticcio, e poi quasi nascosto c’è l’oggetto del moto perpetuo, perché il tempo scorre sempre e dobbiamo sempre tenerlo a mente. I profumi ora, rendevano la casa calda e accogliente, gli odori della “preparazione” e gli “umori” dell’attesa, aumentavano la temperatura, goccioline di sudore mi cadevano nella scollatura, e il vestitino era attaccato ai miei capezzoli già turgidi. Adesso è estate e cucino un ricco cous cous vegetale, mentre tagliuzzo, impasto e bevo vino, ti sento respirare, non dici nulla, perché in realtà tu non esisti qui con me, non ci sei. Mi avevi regalato un ciondolo con uno scarabeo azzurro, mi avevi detto che portava fortuna. Perché? Ne avevo bisogno? Forse sì, dopotutto lì, in quella Tonnara malefica avevo bisogno di un po’di culo, adesso che non c’eri più.

In quel pomeriggio di pioggerella estiva, Fiamma avrebbe potuto scrivere tante cose. Avrebbe potuto scrivere di tutto, avrebbe parlato della Tonnara, di Luca, della sua lenta e molle vita, ma restò in silenzio a cucinare, restò in silenzio a pensare, non disse una parola. Fiamma voleva solo le sue mani, voleva solo il suo respiro su di lei, voleva solo sentire il suo battito aumentare, voleva solo lui, solo Luca.

Sapevo di voler ritornare alle origini, alla natura e a quell’erotismo bucolico che avevamo assaporato insieme, ma quando tornasti da Roma e mi prendesti sul prato del nostro giardino, era già tutto finito, io avevo ancora il grembiule della cucina e le pantofole, ma tu non resistevi, mi corresti incontro, mi stringesti le guance, avvicinandole per un bacio che non mi desti mai, mi mettesti una mano sulla fronte, con le dita che scivolarono subito sulla testa e tra i capelli, come una morsa, una tenaglia, un braccio meccanico che mi spinse giù, e che poi tirasti su, di fretta e furia, mi sentivo un burattino inerme, che elemosinava le movenze corrette, tu stavi su un altro pianeta, mi girasti quasi subito, mi adagiasti su quell’erba umida, ecco! Quel che restava di quella giornata “spesa” ad aspettarti alla finestra.

Voglio essere lucida, come lo specchio che ho di fronte, chiara come l’acqua che ti dono ogni volta, limpida come i pensieri del mattino, quando tu sei accanto a me. Ma non ci riesco, tu, adesso, sei solo frustrazione, assenza e solitudine. Scendo in paese a comprare delle focacce calde, lo sai, lo sai che il panettiere vuole portarmi a letto, ma te ne sei fregato, mi hai lasciato da sola, con il tuo profumo stampato sulla pelle, sola nel silenzio di quella casa e di quell’isola, governata dai tonni e dal pesto al basilico. Prendo la bicicletta, respiro il vento del mare, che tira dalla spiaggia della Bobba fino alle mie narici, è il tramonto. Mi sono detta che stiamo affondando, ma tu mi hai riso in faccia, mi sono detta che ci stiamo polverizzando, ma tu hai risposto dicendomi di quanto fossi teatrale, e che dovevo darci un taglio.

Mi sono appena fatta una doccia, sapevo di cipolla e curcuma e non volevo presentarmi a lui come una pietanza da cuocere o quasi! I miei shorts di jeans e la mia maglietta scollata volevano dirgli quanto fossi sexy, o per lo meno tentavano di comunicarglielo. Alla fine mi sentivo semplicemente sola e volevo un po’ di compagnia, poco importa se ai piedi avevo le Mephisto ed ero senza trucco, ma sotto sotto sapevo che non poteva resistermi, sapevo che avrebbe annusato i miei capelli lunghi fino al sedere, capelli neri, che avrei sciolto per lui, come in una danza rituale o come un siparietto improvvisato, sapevo che avrebbe gustato l’odore etereo dell’Eau de Rochas, sapevo che ci saremmo amati sul retro del negozio, mentre i clienti facevano la fila per taralli e panini caldi, sapevo che mi avresti chiesto di lui, del fatto che mi avesse lasciato da sola per l’ennesima volta, e che tu non lo avresti mai fatto, che mi avresti sposata con l’abito bianco, i confetti e le bomboniere, ma io adesso volevo solo che tu, panettiere isolano, facessi l’amore con me, perché mi conoscevi da quando avevo quindici anni, perché mi conoscevi nei miei periodi rosa e nei miei periodi neri, perché avevamo fatto il bagno a mezzanotte, perché mi avevi visto piangere e mi avevi abbracciata, perché da te volevo solo questo: protezione, amore, carezze, lingua, volevo solo che mi facessi venire velocemente, senza se e senza ma, senza un oggi e senza un domani, volevo venire respirando quell’aria famigliare, accogliente, volevo venire toccando i tuoi bicipiti caldi di forno e la tua pelle che profumava di farina doppio zero e lievito. Ti chiesi di venirmi dentro, perché ti eccitava quando te lo sussurravo all’orecchio, e sapevo che mi avresti sempre aspettata in quel retro bottega umido e rumoroso.

– Non ti sembra che sia un pensiero troppo audace forse? Frena Fiamma chi ti credi di essere, adesso riprendi la bici e vattene!

Era sera, lui le chiese di restare, ma lei preferì tornarsene alla Tonnara da sola, guardando solo la strada che era sempre davanti a lei, solo un po’ più buia.

Quando camminava su quel sentiero che dal paese portava alla Tonnara, Fiamma si sentiva rinata. Era un po’ in salita e, anche se la bicicletta si faceva sentire, lei non accusava il fiatone e tirava dritta, protetta dalla mano del vento che le accarezzava i capelli lunghi e neri e che la rassicurava alitandogli all’orecchio che andava tutto bene e che non doveva sentirsi in colpa e che non doveva avere rimorsi. Così, Fiamma tornava a casa, respirando a pieni polmoni il profumo del Limonio greco e delle Seseli di Padre Bocconi che, dalle Falesie di Capo Sandalo, il maestrale spingeva verso casa. Il mirto e il rosmarino tenevano per mano il vento, e così, insieme, in un abbraccio corale la proteggevano confondendosi con il profumo della sua pelle, che emanava ancora farina, lievito e pane, Fiamma sul viso aveva ancora stampato un sorriso a cinquantacinque denti!
– Eh già! Sarà stata colpa del panettiere e del suo “personalissimo” modo di impastare le tue carni! –
Esserino era dotato di una verve e di una perspicacia che la facevano rabbrividire a volte!

Quando tornava a casa canticchiava sempre Battiato, ora, sul perché le venisse in mente Battiato quando rientrava a casa non se l’era mai riuscito a spiegare! Sarà stata la Prospettiva Nevsij della strada forse!

– Ma se era una via sterrata? – Fiamma comunque era capace di cantarsi “la voce del padrone!” Tutto d’un fiato!

Passò davanti la casa dei vicini detta anche “la gattara” per via delle statuine di gatti sornioni e biricchini che la sovrastavano, salutò il solito “gattone” che era appollaiato alla finestra tipo Buddha. I proprietari erano due ex freakettoni, ormai architetti pensionati, avevano lavorato con Arata Isozaki, e del Giappone avevano ereditato il rito del tè e il ricordo di centinaia di gatti dell’ isola di Aoshima, un ricordo che, ahimé però, li aveva trasformati in argilla, gesso e marmi colorati, non loro, i gatti! Anche se Fiamma nutriva seri dubbi sul fatto che appartenessero o meno a questo sistema solare! A volte la rifornivano di erba, forse era un tantino forte.

– Però, porca miseria quanto era buona! –

La coltivavano dentro un vaso di terracotta, era una piantina piccola piccola, ma si dava da fare, e anche lì c’era un bel gatto posto a fare la guardia! Dopo, ti sentivi in pace col mondo, e lei da lontano riusciva perfino a vedere il cinghiale bianco che le sorrideva, insieme ai gatti, alle pagode e alle lampade cinesi! – Forse hai fatto un po’ di confusione! –

Una sera cenarono insieme sotto il patìo di legno, al quale si accedeva seguendo le indicazioni di una serie di micini buffi e simpatici posti tutti in fila. Un gatto vestito da usciere apriva un portoncino di legno, stile “vecchia Baviera”, saranno stati pure architetti di grido, ma agli occhi di Fiamma sembravano due tizi che si facevano le gite col CRAL! In ogni modo si sentiva tanto Alice che faceva visita al Cappellaio Matto! Luci soffuse, una tavola imbandita, erano tutti scalzi, alcuni erano già “partiti”, lei invece aveva passato tutta la giornata a stirare e a fare pulizie, non aveva risposto ai messaggi del panettiere, e aveva allontanato più volte la minaccia di una sua possibile “irruzione” alla Tonnara. Si sentiva sola as usual, e aveva voglia di cantare a squarciagola canzoni di Battisti e Baglioni, era inquieta e frenetica, insomma stava “su di giri” di nuovo!

Carola l’ aveva telefonata, avrebbe preso l’aereo per Cagliari lunedì.
– Ma dico io in “culonia” devi passare le vacanze tu? Vienimi a prendere all’aeroporto mi raccomando! – La principessa-(le-sarebbe-piaciuto)-sul-pisello non poteva farsi certo un ora e undici minuti di macchina, eh no! Pensò, allontanando il telefono dall’orecchio e scimmiottandole una linguaccia. Quindi lunedì sarebbe venuta Carola, doveva solo sopravvivere al week-end, per questo accettò ben volentieri l’invito di Harold & Maude, ah pardon! Lei era più grande di dieci anni! Ok non badate, ho esagerato col riferimento! Dopotutto aveva solo sessantadue anni la sua vicina!

Per la serata aveva scelto, un vestito in pizzo di San Gallo che esaltava l’abbronzatura, e le cui “prese d’aria” lasciavano intuire che non indossava né reggiseno e né mutande!
– Troietta all’arrembàggio! Cosa direbbe Luca, ma cazzo te lo sei mai chiesto? –
– Se avesse detto qualcosa non sarei così Esserino! Quindi sloggia che non ho tempo! –
Glielo disse mentre si spruzzava la sua Eau de Rochas! Ecco fatto, giusto in tempo per un po’ di smalto rouge sulle unghie e per allacciarsi la fibbietta dei suoi sandali Albano. Lasciò i capelli sciolti, aveva ancora bisogno della mano protettiva del vento che glieli accarezzava, e mise un filo di rossetto anch’esso red. Sapeva di vaniglia forse per via della crostata che fece il pomeriggio! Seguendo i gatti, entrò in un mondo parallelo dalle normali convinzioni comuni approvate!
– Eh Fiamma con due ex-hippie cosa volevi aspettarti i tortellini della domenica?-
– Ciao “diapason” come stai? Hai seguito gattaccio setaccio eh? Lui fa la guardia! Ma sa che sei un’amica cara! E ti ha lasciato passare senza miagolare!
Le si avvicinò Maude che buttandosi addosso le porse subito una canna di benvenuta.

– E chi si tira indietro nonnetta!- Pensò!

Aspirò quasi d’un colpo, mentre nell’altra mano le mise un bicchiere di Passito.

– Chi ben comincia…! –

Esserino era agguerritissimo quella sera, cominciò le sue ramanzine sulla strada verso casa, e le lanciava frecciatine velenose, parlandole a girotondo!
Dopo “na botta di droga e rock’n’roll”, era ancora lucida, tanto da intavolare una conversazione sul M5S! Disse a tutta la platea, alzando il bicchierozzo, che avrebbe voluto tessere una piacevole liaçon con Di Battista e Roberto Fico insieme!
Al quarto Passito di Fiamma erano tutti presi a parlare di Chagall e del perché nei sui quadri ci fosse sempre una capra, il più audace annuì che fosse una metafora della pecorina!
– Eh no per quella serve una pecora non una capra! Studiatevi gli ovini!-
Fiamma rise a crepapelle e cercò tra la folla del giardino chi fece questa battuta! anche se la voce le sembrava familiare.
Era Roberto, aveva preso la nave per Olbia e si era fatto tutta la Sardegna per arrivare su quell’isoletta dei tonni per vederla! Fiamma gli si aggrappò al collo, lui l’abbracciò respirando forte il suo profumo di griffe francese, di vaniglia e farina!

– Perché hai preso la nave? –
– Sai che io e la macchina siamo tutt’uno! –
– Sono contenta di vederti, Robi, mi sei mancato!-
– Hai fatto la brava?-
Fiamma sorrise maliziosa e imbarazzata.
– Con Luca come va? –
– Va, come una barca alla deriva che sta per schiantarsi sugli scogli! Ma come li conosci Harold & Maude? –
– Curai la grafica di vari bollettini di architettura e un loro testo di Architettura Radicale, gli diedi un paio di dritte di social media marketing! Robetta da yuppies resuscitati! –
– Ma perché non mi hai chiamato? –
– Lo sai che mi piace l’effetto sorpresa! –

Non fece in tempo a mettere le chiavi nella serratura che Robi cominciò a baciarle il collo, a prenderle i seni a pieni mani, a torturarle i capezzoli, che spuntavano dalla maglia in pizzo di San Gallo. Col bacino non stava fermo, la spingeva prendendole i fianchi, tirando quei lunghi capelli neri, che il vento adesso aveva ceduto a lui.
– Non posso, Robi –
Glielo disse con una voce bassa e suadente sopraffatta dal desiderio e dall’ardore, respirando il suo profumo Roma Uomo, come se la colpa fosse del mandarino, dell’alloro, del muschio di quercia, del legno di cedro e del patchouli. Era colpa loro se ogni volta cedeva a Robi, alle sue mani e a tutto il resto. Anche lui era un vecchio amico, erano stati insieme a venti anni, beh, in una situazione un po’ particolare. Dove gli ingredienti erano: Luca, Robi, Fiamma, un Capodanno, una veranda e un lettone degli anni Cinquanta! Tutti e tre insieme per sessanta fantastici rintocchi, ma questa è un’altra storia! Fiamma finalmente riuscì ad aprire la porta, gettò la borsetta a terra, non riusciva a tenere le gambe chiuse. Andò in cucina a prepararsi una tisana, o meglio Esserino la costrinse letteralmente a isolarsi un secondo, non fece in tempo a mettere l’acqua sul fuoco che Robi le alzò il vestito, le abbassò le mutandine, la fece sedere sulla sedia a dondolo della veranda.
– Sei una droga Fiamma, andresti bandita, io cerco di disintossicarmi, ma nada! –
Robi affondò la testa tra le cosce di Fiamma, leccandogliela, dissetandosi del suo succo, la sedia li cullava e andava avanti e indietro dolcemente.
– Robi lo voglio! –
Insieme salirono in camera da letto, Fiamma lo condusse in quella degli ospiti però, volle assaggiare subito il suo sapore, prima che si seccasse, lo sfiorava con le mani, gli succhiava il pomo di Adamo, si spingeva contro di lui, si sedette sul letto, gli abbassò i pantaloni e se lo mise in bocca, come un dono, il suo dono, il suo regalo, il suo passatempo, la sua pienezza alle frustrazioni, la sua risposta. – Sì, ma a quali domande? – Fiamma era vittima del desiderio, incontrollabile e ingestibile. I maligni diranno una ninfomane.

– Ancora con questo termine coniato da D’Annunzio? Dovrebbe essere messo al bando come l’isteria! Povera Fiamma? –
Robi la fece alzare immediatamente, la girò, la mise a pecora sul letto, la penetrò piano, con tre colpi lenti e profondi per poi aumentare: il ritmo, la coordinazione e la completezza.

– Non te ne andare Robi –
-Voglio vivere per sempre dentro di te Fiamma –

Fiamma, riuscì ad avere i suoi due orgasmi e il suo solito pianto post coito, ma se ne andò in punta di piedi in bagno, senza farsi vedere, e, a cavalcioni sul bidet, e con una mano poggiata al muro si chiamò puttana.