Mi ami?

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Di cosa stiamo parlando. Ti osservo dal basso verso l’alto, dalle scarpe da ginnastica un po’ consumate, passando su per quei jeans sbiaditi, e terminando sulla maglietta bianca e il grembiule sporco di farina. Ho un rapporto particolare con le tue mani, ma questo già lo sai e con quelle dita che affondano nella pasta, nelle uova, nel sale e nell’acqua e che la notte scorsa sono affondate dentro di me. Io aspetto il mio turno, come sempre, in silenzio senza far rumore, senza interferire con la lievitazione, con tua madre che mi guarda in modo arcigno ogni volta che metto piede in bottega, con il collega che ti ammicca compiaciuto, con la folla che di tanto in tanto mi fa perdere la tua visione. E aspetto, senza parlare, senza dire nulla, mi siedo sulla panchina e ti faccio morire, mi scosto i capelli di lato, abbasso la bretella del reggiseno, mi aggiusto le coppe, inumidisco le labbra, mangio una pellicina dell’unghia, accavallo le gambe, ciondolo con i sandali volutamente, me ne cade uno, lo riprendo col piede, resto scalza per qualche minuto, mi ricompongo sulla panca, alzo la gonna, alzi gli occhi al cielo, sei imbarazzato, no, non puoi distrarti, sei tutto rosso e con il pallore della farina si percepisce ancora di più, ridacchio e la smetto, ho capito non è il momento. Mi piace stuzzicare gli uomini, sono molto più timidi delle donne, di una timidezza primordiale oserei dire, rivelatrice. Quando capii questa cosa, eliminai d’un botto tutti i miei punti ferita e diventai invulnerabile, era facile metterli in imbarazzo, godevo nel farlo, ma non dovevo mai ridicolizzarli, anzi facevo di tutto per metterli a proprio agio, parlavo di musica, di teatro, cantavo, facevo battute stupide, tutto il repertorio di Fiamma, per intenderci. Avevo incontrato uomini che mi avevano lasciato un ampio margine di azione, uomini che mi dicevano sempre di sì, uomini che mi accontentavano sempre, ed io ero soddisfatta di loro, li facevo sentire importanti, utili, e bellissimi e loro capivano e allora eravamo contenti entrambi. Senza prevaricazioni, per andarci d’accordo li imitavo nel mio piccolo, pur restando fedele alla mia personalità e al mio carattere. Intelligenza emotiva, gente, solo quella!
– Dove vai?
Questa estate vengo tutti i giorni, il mio pane quotidiano che ci volete fare. Ho scostato le perline della tenda, il profumo intenso dei biscotti appena sfornati mi invade le narici, faccio marcia indietro riprendo la bici, vado via e pedalo veloce. Sono in terapia, è una terapia, mi serve una terapia, ma intanto curami, curami, curami. Ce l’ho nelle orecchie, non va via. Quel motivetto ossessivo. Mi serve la dose, perché non mi hai seguito? Forse è meglio così. Ho bisogno di qualcuno che mi faccia cuocere nel mio brodo di tanto in tanto, ho bisogno di essere ignorata.
Non abbiamo nulla in comune, di cosa cazzo dobbiamo parlare, poi mi rompi pure sulla zona franca, ma allora devo prendere davvero una spranga fottuto amico mio? E seppellirti dietro la miniera? Siamo agli antipodi, il sesso è il nostro ponte, il collante, lo scotch, la cera lacca, non uccidermi la salute. Sì, ti amo, che cazzo significa, dammi una spiegazione, spiegamelo per bene, fammi uno schema. Io alzo le mani, mi arrendo. Mi prendi per il braccio, mi porti dietro la porta, dove sta il laboratorio, è tardi hai chiuso tu stasera, mi prendi il viso a piene mani, mi stringi forte le guance, mi fai male, vuoi farmi male? Te lo concedo, puoi farmi male e trattarmi come una troietta. A volte ti piace. Lo vedo scritto a caratteri cubitali sulla tua faccia quando parli ai tuoi amici di me.
E io, la faccio la puttanella, perché quando mi perdo nella frustrazione, perché se penso a questo loop, riesco a trovare il binario del godimento più facilmente e poi sono in carrozza, non succede spesso, ma accade e il permesso devo dartelo sempre io. La concessione di trattarmi così devo dartela sempre io.
Quando ero piccola odiavo le magliette che lasciavano il collo scoperto, mi piaceva coprirmi il collo e anche in estate dovevo sempre avere un foulard, bizzarrie. Mi prendesti il collo, inclinai la testa, speravo in un bacio, cercavo di divincolarmi dolcemente, mi parlavi a un centimetro dalla bocca mentre sentivo il tuo respiro farsi sempre più intenso, volevo poggiarmi su qualcosa, piantare i piedi a terra, trovare il binario, mi rallentavi, lo facevi di proposito. Io stavo al gioco. Volevi punirmi, punirmi per non essere la tua fidanzata, punirmi per non idolatrarti, punirmi per il mio parlare a frasi spezzate. Volevi che provassi dolore per te, ma non sentivo nulla. Per venire con te dovevo immaginarmi troia e allora era facile, ma tu volevi la mia anima, non ti bastava il mio orgasmo malsano, pretendevi un orgasmo totalizzante, questo non era possibile, perché non ti amavo. Mi tolsi i jeans, le mutande, il reggiseno, rimasi solo con quella magliettina invisibile che mi copriva di poco il culo, mi sedetti su una sedia, non stavo comoda, cercavo una posizione a me congeniale, ma comandavi tu, ti avevo lasciato carta bianca e dovevo stare zitta. Prendesti dello spago, in realtà le stringhe delle tue scarpe, mi girasti le braccia dietro lo schienale, le gambe erano ancora all’aria, avvicinasti le caviglie ai piedi della sedia bloccasti anche quelle, le gambe erano immobilizzate e non potevo fare leva su nulla per venire, dovevo cedere, deporre le armi, abbandonarmi, così però avevo paura, perché non riuscivo a gestire il piacere, a modularlo, a dosarlo, così era un esplosione, una botta fortissima, un rush a rilento, iniziato dal collo, per passare all’interno coscia e al retro ginocchio, con quella lingua, lingua che valeva più di mille verghe inflitte. Mi sentivo esposta, non potevo fare nulla, non potevo muovermi, potevo solo guardarti in silenzio, ero seduta in modo che il bacino fosse proteso in avanti, eccole le tue mani, le tue dita, mi sentivo tormentata, non seguivi il mio ritmo pur conoscendolo, lo facevi di proposito.
Che dobbiamo fare Panettiere? Vuoi torturarmi?
Ero bagnatissima, infilò due dita e con il pollice premeva sul bottoncino fatato. Non potevo irrigidirmi, non potevo seguire il mio solito schema-pro-orgasmo, dovevo arrendermi a lui. E la resa doveva passare per lo stillicidio, per il caos, per la frustrazione e per il SUO cazzo di schema. Sentivo tutto, le contrazioni a rilento che non esplodevano, i miei capezzoli turgidi, il rigolo di rugiada che scendeva per le cosce, il mio petto rosso fuoco, il mio viso in fiamme, il solito pizzicore al naso prima dell’urlo finale. Ma Panettiere si era messo con tutta la buona volontà, mi mise una mano al collo per non farmi respirare per qualche secondo, mentre continuava a leccare, a leccare, leccare voracemente. Stavo per cedere, la fica andava da sola, come se fosse un’entità a sé, fuori da corpo, ma dentro la mente, fuori dai comandi, ma dentro la cabina di controllo.
– Perché non mi bendi?
– Perché devi vedere.
– Allora stringi di più.
– Smettila
– Volevi farmi male, fallo
– Smettila
– Volevi punirmi? Fallo
– Smettila
– Perché non mi scopi? Voglio che mi scopi, scopami.
Ero impossessata da quel orgasmo che non riusciva ad uscire, ma che era lì sull’uscio della porta, sul ciglio del burrone, sull’orlo del precipizio. Era uno strazio poterlo vedere e non riuscire a farlo entrare.
Panettiere aveva fatto marcia indietro, la sua mano importante, ruvida, grande, forte, era scesa in soccorso della lingua. Lingua e dita, le gambe divaricate e immobilizzate, le braccia legate a nodo stretto, ero una bomba ad orologeria. Urlai con tutto il fiato che avevo in gola, le vibrazioni percorsero tutto il mio corpo. Non bastavano i lacci delle scarpe a tenermi, Panettiere mi mantenne forte per le cosce mentre stava lì, tra quelle cosce tremolanti, che stavano per sgretolarsi e continuava a leccarla adesso piano, lentamente, con calma asciugò tutto, stremato mi baciò l’interno cosce, mi portò le braccia davanti l’intermo coscia, senza fretta, dolcemente mi slegò le caviglie, mi allentò i polsi, ero esausta, era stata una botta fortissima, dovevo riprendermi. Mi alzai lentamente, le ginocchia mi tremavano ancora, mi girai quasi in automatico e appoggiai le mani sul bancone, ero ancora bagnata, quel bagnato servì per un altro trou.
– Devo darti il culo, adesso? Questo è il tuo modo di punirmi?
In silenzio obbedii, mi fece male, forse aveva raggiunto il suo scopo, venne subito, mi rivestii e andai via, la dose era finita, senza infamia e senza lode, senza “botte di ritorno” e senza entusiasmo. Panettiere voleva parlare, io non ne avevo voglia. Ci rivedremo quando la roba sarà finita e la rota inizierà di nuovo, tu curami sempre, però.

Curami, CCCP Fedeli alla Linea, 1964-1985 Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi – Del conseguimento della maggiore età, Attack Punk Records 1985.

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